Autore: Aniello Inverso – 27/05/2025
Il progresso Muskilista. Rischi e minacce del potere delle tecnologie gestite da uomini-Stato di Stefano de Falco – Recensione a cura di Aniello Inverso
Nel volume Il progresso Muskilista. Rischi e minacce del potere delle tecnologie gestite da uomini-Stato (Gambini editore, 2025), Stefano de Falco, professore associato di Geografia politica ed economica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, analizza il modo in cui l’innovazione tecnologica sta trasformando le geometrie del potere contemporaneo. L’autore propone una lettura critica dell’attuale ordine tecno-economico, concentrandosi su come il potere si riorganizzi attorno a soggetti privati capaci di esercitare funzioni sovrastatali. Il volume è articolato in quattro capitoli, ciascuno dei quali affronta il fenomeno muskilista da una prospettiva diversa.
Il primo capitolo del volume rappresenta una sorta di piattaforma empirica e interpretativa da cui il lettore è condotto dentro la materia viva del potere tecno-economico contemporaneo. Non si tratta di una mera elencazione di dati o indicatori economici, ma della loro politicizzazione critica all’interno di un quadro che problematizza la concentrazione di potere e l’emersione di nuove soggettività politiche non istituzionali. L’approccio del capitolo è chiaramente ispirato a una logica di disvelamento del potere algoritmico e infrastrutturale che si cela dietro l’apparente neutralità delle tecnologie e dei dati di mercato. Il professore de Falco esplicita, sin dalle prime pagine, come l’egemonia delle grandi corporations non sia più solo di ordine economico, ma progressivamente geopolitico, cognitivo e normativo. I dati finanziari, bilanci, capitalizzazioni di mercato, numero di dipendenti, investimenti in ricerca e sviluppo, sono utilizzati come sintomi, non come fini. Essi rivelano la capacità di attori privati come Apple, Amazon, Meta, Tesla e SpaceX di ridisegnare gli equilibri tra pubblico e privato, tra libertà di mercato e sicurezza nazionale, tra democrazia deliberativa e tecnocrazia. I “dati” non sono solo strumento di misurazione, ma diventano segni del potere. La capitalizzazione di Tesla, la penetrazione di Amazon nei servizi pubblici essenziali, il controllo infrastrutturale di SpaceX nel settore spaziale (e quindi anche militare), sono rappresentazioni numeriche di un potere de facto che scavalca le forme della rappresentanza politica e assume connotati para-sovrani. Le sei big tech (Amazon, Alphabet, Apple, Microsoft, Meta e Netflix), cui si aggiungono le creature di Musk, dominano l’economia globale con profitti esorbitanti e una capacità di influenzare l’accesso all’informazione, alla mobilità, alla sicurezza e alla stessa cittadinanza digitale. Questo dominio non si fonda più sul libero mercato in senso smithiano, ma su forme sofisticate di monopolio cognitivo e infrastrutturale, capaci di neutralizzare la concorrenza e colonizzare interi settori economici e sociali. L’autore è attento anche al paradosso occupazionale. Pur in presenza di profitti record e capitalizzazioni miliardarie, queste aziende licenziano in massa (oltre 250.000 lavoratori nel biennio 2022–2023), a conferma di un modello estrattivo e deregolamentato in cui la produttività si misura ormai più in capacità predittiva algoritmica che in forza lavoro umana.
Nel secondo capitolo, l’autore, si distacca dalla matrice empirico-quantitativa ed articola una vera e propria fenomenologia critica della retorica dell’innovazione, e in particolare di quella che Clayton Christensen ha definito “disruptive innovation“, riconoscendovi il lessico dominante dell’attuale tecno-capitalismo. L’intuizione centrale è che dietro l’apparente neutralità di questo paradigma si nasconde una forma di egemonia mascherata, che agisce in modo pervasivo e culturalmente normalizzato, plasmando non solo i mercati, ma i modelli cognitivi, i processi politici e la struttura simbolica del reale. De Falco identifica nel muskilismo non un’ideologia in senso politico-partitico, ma un orizzonte epistemologico e normativo, fondato sulla convinzione che l’innovazione tecnologica basti a se stessa, che il progresso debba essere sempre una rottura, e che il cambiamento sia accettabile solo se passa attraverso la rimozione dello Stato, del diritto, della memoria storica e del consenso democratico. Uno dei passaggi più significativi è la rilettura critica del concetto di innovazione dirompente, a partire dalla genealogia culturale che affonda le sue radici nel pensiero di Schumpeter (distruzione creatrice) e si sviluppa nei decenni successivi attraverso l’apologia della startup disruptive e la glorificazione del “salto tecnologico”. L’autore decostruisce questa retorica mostrando come il linguaggio della disruption sia diventato un dispositivo di legittimazione per l’egemonia della discontinuità, cioè per una visione del cambiamento che esclude ogni gradualismo, ogni mediazione e ogni forma di resistenza istituzionale. L’idea del genio solitario, l’estetica del rischio, la logica dell’accelerazione permanente, in questa narrazione, rappresenta il progresso sempre più “maschile”, competitivo, verticale. Non è un caso che l’autore parli di maschilismo sistemico annidato nella struttura epistemica dell’innovazione tecnologica, denunciando l’assenza di una visione inclusiva, relazionale, comunitaria. Il muskilismo, in quanto ideologia dell’individualismo performativo, si presenta come una vera e propria etica dell’esclusione. Esclude le donne, i territori marginali, le alternative sostenibili, le temporalità lente, le memorie locali. L’uomo, in questo caso l’“uomo-Stato”, è un decisore senza cittadinanza, un regolatore senza regole, un legislatore senza Costituzione. In questa prospettiva, la disruptive innovation cessa di essere una categoria economico-tecnica per diventare un paradigma di dominio. L’innovazione muskilista che si presenta come neutra e inevitabile, in realtà impone un nuovo ordine, dove la complessità viene espulsa e il dissenso ridotto a errore di calcolo. Da qui la citazione, non casuale, della dottrina TINA (There Is No Alternative) di Margaret Thatcher, con la quale l’autore stabilisce un parallelo efficace. Se il neoliberismo dissolveva le alternative politiche, il muskilismo dissolve le alternative tecnologiche, eliminando dalla scena tutte le soluzioni concorrenti, dall’idrogeno ai carburanti sintetici, dalla fibra ottica alle reti comunitarie. Significativa è anche la connessione con il pensiero di Benedetto Croce, richiamato come antidoto teorico alla semplificazione muskilista. Il metodo critico crociano, fondato sulla storicità, sulla pluralità dei punti di vista e sulla valorizzazione della complessità, è contrapposto alla linearità ideologica della disruptive innovation, che pretende di fondare il progresso sull’azzeramento del passato e sulla supremazia dell’efficienza. In ideale continuità con questo approccio, il capitolo si chiude con un suggestivo riferimento a Martin Heidegger e alla sua riflessione sulla tecnica. Il disvelamento (ἀλήθεια) non è semplice produzione funzionale, ma modalità di rapporto con la verità. La tecnica, se svuotata del suo legame ontologico con il senso, si trasforma in una forma di occultamento, non di rivelazione. Ed è proprio questo l’imperativo categorico dell’uniformazione globale.
L’approfondimento teorico trova una sua applicazione concreta nella dimensione geopolitica, dove il muskilismo emerge come forza di riconfigurazione delle relazioni tra Stati, imprese e territori. È qui, nel terzo capitolo, che si chiarisce in modo definitivo quanto la figura dell’“uomo-Stato” non sia solo simbolica, ma operativa, capace, di agire su scala sovrana al di fuori delle cornici statuali tradizionali. L’elemento centrale del capitolo è la disamina della trasformazione dello spazio extra-atmosferico in dominio privatizzato, con particolare attenzione al ruolo di SpaceX, la compagnia aerospaziale fondata da Elon Musk, e al progetto Starlink, una delle più ambiziose e invasive infrastrutture satellitari private mai realizzate. De Falco interpreta questa transizione come una vera e propria cesura epocale nel diritto e nella politica internazionale. Il passaggio da uno spazio considerato res communis omnium, regolato da trattati multilaterali e da istituzioni statali, a uno spazio perimetrato da logiche aziendali, in cui la connessione globale, la sorveglianza, l’accesso e il controllo dell’informazione vengono determinati da attori non-eletti e non responsabili verso alcuna collettività politica. L’autore sottolinea come l’architettura satellitare di Elon Musk non è solo un progetto di connettività, ma un architrave strategico della sua proiezione di potere. In particolare, si analizza il ruolo giocato da Starlink nel conflitto russo-ucraino, dove la disponibilità o meno del servizio ha avuto impatti diretti sulle operazioni belliche e sulla difesa delle infrastrutture critiche. Questo esempio permette all’autore di avanzare una tesi radicale. La deterrenza, la logistica e la sicurezza nazionale stanno slittando dal perimetro statale a quello aziendale, con implicazioni devastanti per l’equilibrio dei poteri. Ciò che rende potente questa riflessione è l’adozione di una griglia di lettura che unisce geopolitica classica, critica e teorie dell’economia politica. De Falco richiama, ad esempio, l’analisi di Joseph Stiglitz sulla necessità di mantenere una regolazione statale come garanzia di equilibrio e inclusione, contrapponendola all’egemonia privata di tipo neoliberista che, nella versione muskilista, si traveste da neutralità tecnologica. Ma il suo sguardo non è solo istituzionale è anche ontologico. Egli mostra come il dominio dello spazio non sia solo un problema militare o giuridico, ma un problema di senso e di ordine. Chi controlla le orbite, controlla non solo i flussi informativi e logistici, ma l’immaginario stesso della globalizzazione, la forma della visione, le traiettorie del futuro. La “corsa allo spazio” diviene di nuovo elemento di competizione tra modelli di potere. Ma mentre negli anni della Guerra Fredda la sfida spaziale era il simbolo della contrapposizione tra blocchi ideologici, oggi essa diventa terreno di affermazione del capitalismo delle piattaforme, in cui l’innovazione serve a consolidare asimmetrie esistenti e non a universalizzare i benefici. Il “privato” non è più lo spazio della libertà contro la burocrazia statale, ma un nuovo Leviatano senza volto pubblico, che accumula potere e influenza senza dover rispondere a nessuno.
L’ultimo capitolo segna il punto di massima sintesi e, al tempo stesso, di maggiore tensione teorica del volume. Dopo aver illustrato la portata materiale, economica e geopolitica del muskilismo, il professore de Falco volge lo sguardo verso l’impianto simbolico, culturale e ideologico del potere tecnocratico, interrogandosi sulla sua capacità di orientare le visioni del futuro e di condizionare le opzioni politiche disponibili. È qui che l’autore affronta il tema della monocultura tecnologica e della sistematica rimozione delle alternative. In questo contesto il muskilismo viene definito come una forma di egemonia integrale, nel senso gramsciano del termine. Un dispositivo che non solo esercita potere, ma costruisce consenso, modella il senso comune, impone una visione del mondo in cui progresso coincide con accelerazione, cambiamento coincide con rottura, e futuro coincide con una tecnocrazia privatizzata. Il dominio, in questa chiave, non è più solo materiale, ma cognitivo e culturale. Si manifesta nel linguaggio (con il lessico della disruption), nell’estetica (con la retorica del genio visionario), nella temporalità (con la cancellazione della durata e della gradualità), nella spazialità (con l’abbattimento delle frontiere pubbliche). Contro questa visione, De Falco invoca la necessità di ricostruire un pluralismo tecnologico e democratico, non come ritorno nostalgico al passato, ma come progetto politico di emancipazione. Ciò significa restituire allo Stato e alle istituzioni pubbliche un ruolo attivo nella regolazione dell’innovazione, nel controllo delle infrastrutture critiche e nella definizione delle traiettorie di sviluppo. Ma significa anche promuovere una cultura della complessità, della lentezza, della cooperazione, capace di rifiutare la logica del “salto” a favore di una logica della trasformazione negoziata, multilaterale e partecipata. Con l’affermazione “la tecnologia non può essere neutrale perché non nasce mai nel vuoto”, che conclude il capitolo, l’autore vuole esplicare come la tecnica è sempre frutto di una visione del mondo, di un sistema di potere, di un ordine simbolico. Il compito delle democrazie non è rifiutarla, ma sottrarla all’arbitrio dei monopoli cognitivi ed economici, restituendola alla polis come oggetto di scelta collettiva e non come destino imposto. Solo così sarà possibile parlare di progresso in senso pasoliniano, come crescita qualitativa, culturale, relazionale e sostenibile. Questo quarto capitolo, denso di riferimenti e con un impianto etico-politico esplicito, rappresenta l’atto conclusivo ma anche il manifesto del volume. La critica al muskilismo si configura così non solo come resistenza intellettuale, ma come proposta costruttiva. Restituire senso alla tecnica attraverso la democrazia, sottrarre l’innovazione al feticismo dell’eccezionalismo, rilanciare la complessità come fondamento di una governance condivisa del futuro.
Il progresso Muskilista non è un semplice volume di critica all’eccesso tecnologico o alla figura, per certi versi ingombrante, di Elon Musk. È un dispositivo analitico complesso, una mappa concettuale del nuovo ordine globale che si va formando sotto la spinta di un’innovazione privatizzata, deregolamentata e sempre più concentrata in mani non rappresentative. Stefano de Falco, con rigore accademico e profondità intellettuale, compie un’operazione rara nel panorama italiano. Sottrae la tecnologia all’esaltazione dell’efficienza per restituirla al dominio del politico, del critico, del democraticamente negoziabile. Attraverso un impianto multidisciplinare il volume costruisce un’interpretazione radicale ma lucida del paradigma muskilista, presentandolo come il volto attuale di un potere che si traveste da progresso per esercitare dominio. La figura dell’“uomo-Stato” riassume la dissoluzione del confine tra impresa privata e autorità pubblica, mentre la retorica della disruptive innovation agisce come motore di legittimazione culturale e ideologica di un capitalismo post-statuale e post-democratico. L’ambizione più importante del volume non è però solo diagnostica, ma politica. Richiamare l’urgenza di una sovranità pluralista dell’innovazione, in cui la tecnologia non sia più veicolo di esclusione, concentrazione e imposizione, ma uno spazio negoziato di possibilità. Il richiamo a Pasolini, Croce, Heidegger e Stiglitz non è meramente citazionale, ma funzionale alla costruzione di una contro-narrazione fondata sulla complessità, sulla giustizia, sul limite e sulla memoria storica. Il progresso Muskilista è una lettura imprescindibile per le istituzioni, gli osservatori strategici, i think tank e per tutti coloro che sono interessati a comprendere le trasformazioni dell’innovazione tecnologica. Non solo aiuta a decifrare le logiche profonde che governano la fase attuale della globalizzazione digitale, ma contribuisce anche a ridefinire le condizioni di un’azione pubblica all’altezza delle sfide del nostro tempo.
Aniello Inverso – Laurea magistrale in ‘Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale’, presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma. Laurea triennale in ‘Scienze politiche e delle relazioni internazionali’ presso l’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’. Analista presso Vision & Global Trends International Institute for Global Analyses, nell’ambito del progetto Società Italiana di Geopolitica.
