Autore: Giordana Bonacci & Aniello Inverso – 24/06/2025
Recensione di Giordana Bonacci & Aniello Inverso
GEOPOLITICA. Journal of Geopolitics and Related Matters. Rivista di Politica Internazionale. ISSN 2009-9193 Vol XIV, n. 1/2025 ISBN 9791281485211 Callive Media&Books 2025, pp. 592, € 42,00
Confine e Frontiera in Geopolitica, nel Diritto Internazionale e nelle Relazioni Internazionali – Border and Frontier in Geopolitics, International Law and relations
Il volume Confine e frontiera. In geopolitica, nel diritto internazionale e nelle relazioni internazionali (Geopolitica ISSN 2009-9193, vol XIV, n.1/2025), curato da Federico Bordonaro e Tiberio Graziani, prende in esame il concetto di confine nella sua dimensione multidisciplinare, interrogandolo come categoria utile a interpretare le trasformazioni politiche, normative e spaziali del mondo contemporaneo. In un’epoca segnata da mobilità, deterritorializzazione e nuove forme di controllo, il confine non è più solo una linea di separazione, ma si configura come strumento di governo, oggetto di contesa, soglia simbolica e dispositivo tecnologico. Il volume si articola in tre sezioni.
Nella prima parte del volume della rivista Geopolitica (1/2025), tredici autori affrontano il tema del confine da prospettive differenti, proponendo un’articolata riflessione teorico-pratica sulle sue trasformazioni contemporanee. Giuseppe Anzera e Alessandra Massa (Disegnare i confini digitali. Le mappe tra piattaformizzazione, neogeografia e rappresentazione geopolitica), Alberto Catania (Un confine selettivamente permeabile: il caso di Ceuta), Isabella M. Chiara (Il confine e la frontiera nell’Impero Romano e nell’età moderna), Manuela Cicerchia (Tracciati per essere superati: uno spazio senza frontiere), Paolo Cornetti (Frontiera Mediterraneo: tra mondo unipolare e multipolare), Marco Dordoni (Il Caso Groenlandia: La “Nuova” Frontiera dell’Artico), Alfonso Giordano (Orbital Thresholds: Exogeography and the Evolving Geopolitics of the High Boundary), Said Saidakhrarovich Gulyamov (Cyber Peacekeeping in the Context of Global Cybersecurity and Digital Sovereignty), Giuliano Luongo (Le contese di confine nella gestione della crisi del Mare d’Aral), Carole Massalsky (Iran-Iraq Relations: Exploring Cross-Border Dynamics), Zaeem Hassan Mehmood (The Role of Emerging Maritime Technologies in Redefining Geopolitical Frontiers in the Indo-Pacific), Gianluca Pastori (La linea Durand: un confine fragile nel cuore dell’Asia) e Francesco Valacchi (Tibet: da “terra delle nevi” a terra di confine) propongono letture plurali, che spaziano dalla geopolitica classica alla dimensione simbolica, dal diritto internazionale alla governance delle tecnologie emergenti.
Questa prima sezione si configura come un attraversamento critico delle frontiere contemporanee, intese non solo come soglie spaziali, ma come costrutti politici, culturali e tecnologici. I saggi esplorano temi che vanno dalla riconfigurazione delle mappe digitali alla gestione dei confini marittimi e cibernetici, dalla tensione tra tradizione e innovazione giuridica alla frizione tra potenze emergenti nei teatri più sensibili del globo. Ne emerge un quadro denso e stratificato, che restituisce la complessità del concetto di confine nel XXI secolo, in un mondo in cui la sovranità si ridefinisce lungo assi mobili, tra piattaforme digitali, orbite spaziali, mari contesi e territori simbolicamente densi. I confini, più che delimitare, raccontano: e questi tredici contributi li interrogano come dispositivi interpretativi dell’ordine globale in transizione.
Il percorso analitico della sezione si apre con il saggio di Giuseppe Anzera e Alessandra Massa, che pone al centro della riflessione il ruolo trasformativo della cartografia digitale, esplorandone le implicazioni simboliche, politiche e cognitive alla luce delle dinamiche di piattaformizzazione e neogeografia. L’analisi proposta da Giuseppe Anzera e Alessandra Massa si configura come un contributo denso e intellettualmente stimolante alla riflessione sul ruolo delle mappe e della cartografia nell’odierno scenario geopolitico. Lungi dall’assumere un approccio meramente descrittivo e tecnico, il saggio si distingue per la capacità di indagare la dimensione simbolica, politica e comunicativa della mappa, concepita non più come strumento neutrale di rappresentazione dello spazio, bensì come artefatto discorsivo e dispositivo di potere. È proprio in questa prospettiva critica e teoricamente informata che il testo rivela la sua maggiore efficacia, invitando il lettore a guardare alla cartografia come un linguaggio in grado di strutturare narrazioni, legittimare visioni del mondo e incidere sull’immaginario collettivo. Attraverso l’inquadramento teorico offerto dalla geopolitica critica, gli autori analizzano il passaggio da una concezione oggettivante dello spazio, tipica della cartografia tradizionale, a una lettura che ne sottolinea la dimensione costruita e politicizzata. In tale ottica, la mappa emerge come veicolo attraverso cui si attribuiscono significati antropogenici ai confini, ai territori e agli elementi fisici, contribuendo alla definizione degli equilibri di potere.
Un tema centrale dell’analisi riguarda il mutamento delle forme del potere nel contesto contemporaneo, con particolare attenzione al passaggio dall’hard power, fondato sul controllo territoriale e materiale, a forme più elusive di soft power, in cui simboli, valori e immaginari culturali assumono un ruolo determinante nei processi geopolitici.
Particolarmente rilevante risulta la riflessione sullo spazio digitale e sulla sua crescente centralità nella costruzione della realtà geografica. Gli autori mettono in luce come, nell’epoca delle piattaforme digitali, la dimensione geografica diventi sempre più fluida e mediata, al punto che la visibilità, la legittimità e l’esclusione di determinati luoghi o narrazioni dipendano in larga misura dalla loro rappresentazione cartografica digitale. In questo senso, le mappe online assumono una funzione strategica e selettiva, capace di orientare percezioni e decisioni politiche. Il volume si sofferma inoltre sul fenomeno della piattaformizzazione, inteso come il processo di penetrazione sistematica delle piattaforme digitali nei meccanismi sociali e comunicativi, inclusa la produzione cartografica. Questo processo ha determinato una progressiva democratizzazione dell’atto di mappare, che da attività riservata a esperti e istituzioni si trasforma in pratica diffusa e partecipativa, veicolata da strumenti accessibili e ambienti digitali interattivi. Le piattaforme commerciali, tuttavia, ridefiniscono profondamente le condizioni di possibilità di tale partecipazione, sollevando interrogativi critici sulla reale autonomia degli utenti e sulla concentrazione del potere decisionale in mano a pochi attori privati. In tale cornice si inserisce il riferimento al framework della neogeografia, categoria analitica che designa l’insieme di pratiche di mappatura extra-accademiche abilitate dalle interfacce digitali. Questo approccio consente di esplorare come le mappe diventino strumenti attraverso cui si configura una geopolitica dal basso, in cui la produzione cartografica si trasforma in terreno di confronto, partecipazione e rivendicazione collettiva. Uno degli aspetti più rilevanti del saggio consiste nella capacità di restituire in modo chiaro il passaggio da una cartografia istituzionale e centralizzata, dominata dallo Stato e da corpi tecnici, a una modalità più aperta, orizzontale e apparentemente democratica. Gli autori, tuttavia, evitano con lucidità ogni lettura ingenuamente ottimistica, ricordando che la partecipazione abilitata dalle piattaforme non è mai completamente neutra, giacché mediata da infrastrutture tecnologiche, logiche algoritmiche e interessi economici che ne condizionano profondamente finalità e accessibilità. La mappa, in questa prospettiva, si configura come uno spazio conteso, dove convergono e si confrontano narrazioni divergenti, interessi geopolitici, memorie storiche e identità collettive. Merita infine attenzione l’analisi delle pratiche di mapmaking partecipativo, che il testo interpreta come forme emergenti di resistenza simbolica. Dai tentativi delle comunità indigene di decostruire le mappe coloniali, fino alla problematizzazione della produzione inconsapevole di dati geografici da parte degli utenti, il saggio mostra con efficacia come la cartografia non si limiti a rappresentare lo spazio, ma contribuisca attivamente alla sua costruzione, assegnandogli senso, visibilità e valore politico.
Se il contributo di Anzera e Massa ha mostrato come i confini vengano oggi costruiti e contestati attraverso rappresentazioni digitali e dispositivi simbolici, il saggio di Alberto Catania sposta l’attenzione su un caso concreto e fortemente emblematico: quello di Ceuta, dove la tensione tra confine e frontiera si traduce in dinamiche quotidiane di sovranità, mobilità e appartenenza. La riflessione dell’autore prende avvio dalla distinzione fondamentale tra “confine” e “frontiera”, due concetti che, pur essendo strettamente correlati, svolgono funzioni e manifestano significati diversi. Il confine, come linea tangibile e definita, implica un cambiamento di sovranità e territori, mentre la frontiera è un concetto più fluido, connotato da differenze culturali, linguistiche e religiose che spesso sfuggono a delimitazioni nette. Tale dualità fornisce una base solida per comprendere la natura del confine di Ceuta, che, pur essendo una demarcazione fisica tra Spagna e Marocco, è pervaso da significati e conflitti che trascendono la sua mera dimensione geografica. Uno dei principali meriti del saggio risiede nella capacità di coniugare con rigore l’analisi storica e la riflessione politica contemporanea. La ricostruzione storica delle vicende di Ceuta, dalle conquiste islamiche alla colonizzazione portoghese e spagnola, fino ai processi di decolonizzazione del Novecento, offre una cornice indispensabile per contestualizzare le attuali tensioni tra Madrid e Rabat. Le rivendicazioni marocchine sulle Plazas de soberanía sono interpretate non come semplici dispute territoriali, bensì come manifestazioni di una più ampia dialettica tra memoria coloniale, identità nazionale e strategie di legittimazione geopolitica. Il cuore pulsante dell’analisi si colloca però nella lettura del presente. L’autore evidenzia con chiarezza come Ceuta, pur appartenendo formalmente al territorio europeo, si trovi di fatto sospesa tra due mondi: da un lato, presidio dell’Unione Europea per il controllo e la gestione dei flussi migratori; dall’altro, luogo di scambio quotidiano, umano ed economico, con il territorio marocchino limitrofo. Emblematica in tal senso è la figura del porteador, il lavoratore transfrontaliero incaricato di trasportare merci attraverso il confine: una pratica economicamente funzionale e perciò tollerata, che coesiste con forme di controllo ben più repressive rivolte ai migranti irregolari, in particolare quelli provenienti dall’Africa subsahariana. Particolarmente interessante è anche l’interpretazione del confine come spazio funzionalizzato e diffuso, in cui Ceuta non rappresenta più soltanto un punto di attraversamento, ma assume i tratti di un limbo, un’area di sospensione e attesa. Il CETI (Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes) diventa in questo senso il simbolo di una condizione giuridica e umana indefinita, che riflette una delle principali contraddizioni dell’architettura politica europea: il tentativo di costruire un confine esterno chiuso e impermeabile, basato però su meccanismi ambigui di delega, eccezione e gestione esternalizzata. L’adozione del concetto di limboscape, richiamato nel testo, coglie efficacemente questa ambivalenza: uno spazio in cui si è simultaneamente dentro e fuori dall’Europa. Degna di nota è inoltre l’analisi del ruolo che il Marocco gioca nella gestione dei flussi migratori. Catania mostra come Rabat abbia progressivamente trasformato la questione migratoria in una vera e propria leva diplomatica, utilizzata per esercitare pressioni sull’Unione Europea. Eventi come la crisi dell’Isola di Perejil nel 2002 o l’apertura temporanea dei confini verso Ceuta nel 2021 sono chiari esempi di come il tema delle migrazioni sia sempre più politicizzato, diventando uno strumento nelle negoziazioni e nell’affermazione di interessi strategici. In questo contesto, la Spagna, e con essa l’intera Unione Europea, si trova costretta a esercitare un complesso bilanciamento tra esigenze di sicurezza, tutela dei diritti umani e necessità di cooperazione con un partner regionale al contempo cruciale e imprevedibile.
Dal confine selettivamente permeabile di Ceuta, emblema delle tensioni contemporanee tra mobilità e sovranità, l’analisi si sposta su un piano storico e teorico con il saggio di Isabella M. Chiara, che ricostruisce l’evoluzione del concetto di confine dalle pratiche imperiali romane fino alle elaborazioni geopolitiche moderne. Attraverso un approccio interdisciplinare, l’autrice affronta una questione cruciale della teoria politica e della geografia storica: la natura e l’evoluzione del concetto di confine. In un’epoca in cui i confini sono tornati a occupare una posizione centrale nel dibattito politico, sociale e culturale, l’autrice propone un’analisi che ne ricostruisce la stratificazione storica, concettuale e strategica, muovendo dall’esperienza dell’Impero romano fino alle elaborazioni geopolitiche tra Otto e Novecento. Un primo, rilevante merito del lavoro risiede nella distinzione iniziale, tanto fondamentale quanto spesso trascurata, tra i concetti di confine e frontiera. Il confine viene definito come una linea giuridicamente determinata, rigida e istituzionalmente riconosciuta, attraverso cui lo Stato esercita la propria sovranità; la frontiera, invece, si configura come uno spazio fluido, permeabile, teatro di scambi, interazioni e sovrapposizioni. Questo binomio, spesso oggetto di semplificazioni, viene trattato con grande rigore teorico, a partire dall’analisi del caso romano, in cui confine e frontiera coesistono in una tensione strutturale tra logiche espansive e pratiche di controllo. La prima parte del volume è dedicata all’esperienza dell’Impero romano, emblematicamente posto a fondamento della riflessione. Roma, pur promuovendosi ideologicamente come imperium sine fine, sviluppa progressivamente forme di delimitazione territoriale sempre più stringenti. Il passaggio da una gestione flessibile e diplomaticamente negoziata dei margini imperiali, tipica dell’età giulio-claudia, alla costruzione di barriere fisiche e simboliche sotto l’imperatore Adriano rappresenta una cesura significativa. Tale trasformazione testimonia l’evoluzione del confine da spazio d’interazione a meccanismo di controllo, di selezione e di produzione dell’alterità. Il confine, in questa prospettiva, non è mai una semplice linea geografica, ma uno strumento performativo che contribuisce a definire l’identità imperiale e a regolare l’inclusione e l’esclusione.
Successivamente, l’analisi si estende alla riflessione geopolitica moderna, attraverso il confronto con tre figure centrali del pensiero spaziale tra Otto e Novecento: Friedrich Ratzel, Halford Mackinder e Karl Haushofer. Ratzel propone un modello organicista dello Stato, concepito come un organismo vivente in continua espansione, con il confine assimilato a una “pelle” mobile e vitale. Mackinder, con la celebre teoria dell’Heartland, colloca la questione dei confini al centro delle strategie geopolitiche globali. Haushofer, infine, radicalizza la visione del confine come zona di conflitto permanente e potenziale area di espansione, anticipando letture che troveranno applicazione – spesso controversa – nei discorsi nazionalisti e imperialisti del XX secolo. L’Impero romano, il pensiero geopolitico moderno e le sfide del presente sono connessi da un filo rosso interpretativo che riconosce nel confine non solo uno strumento di potere, ma anche un luogo di negoziazione, ibridazione e conflitto. L’autrice riesce così a restituire la complessità di un concetto che, sebbene spesso trattato in termini dicotomici, si rivela profondamente dinamico e stratificato.
Successivamente, il saggio di Manuela Cicerchia offre un contributo rigoroso e al tempo stesso sensibile a un tema di grande attualità, quale la natura dei confini e il loro superamento, intesi non solo come entità geografiche ma soprattutto come fenomeni culturali, giuridici e simbolici. L’autrice conduce una riflessione profonda e articolata sul concetto di frontiera, sostenendo che l’unità tra i popoli non si realizza attraverso l’eliminazione dei confini fisici, bensì attraverso la loro elaborazione e il loro superamento su un piano mentale e culturale. Uno degli aspetti più interessanti e originali del testo è proprio la visione del confine non come una barriera invalicabile, bensì come una zona di transizione, un luogo di potenziale incontro e scambio. La distinzione tra “confine” e “frontiera”, spesso confusa o usata in modo intercambiabile, viene chiarita con efficacia: mentre il confine definisce un limite giuridico-amministrativo, la frontiera è intesa come uno spazio fluido e dinamico, aperto alla trasformazione e all’interazione. In questa prospettiva, l’identità culturale non è qualcosa di rigido o esclusivo, ma un patrimonio che si rafforza e si preserva proprio attraverso il dialogo con l’altro. Di particolare rilievo è il recupero del concetto romano di limes, interpretato non come una linea fissa e immutabile, ma come una zona strategica di espansione e controllo. Questo riflette la visione imperiale di Roma come un territorio senza confini definitivi. L’autrice cita l’imperatore Claudio e il suo discorso, che incarna un modello di integrazione in cui i popoli conquistati venivano trasformati in cittadini, i nemici in alleati. Un esempio antico che viene messo in luce proprio per il suo contrasto con modelli più recenti, come quelli britannico e americano, dove l’integrazione è rimasta spesso incompiuta o problematica. Cicerchia dedica inoltre ampio spazio alla dimensione giuridica e simbolica del confine, sottolineando il suo ruolo imprescindibile nella definizione dello Stato moderno, come sancito fin dal Trattato di Vestfalia. Tuttavia, se da un lato il diritto traccia linee precise, dall’altro la realtà le mette costantemente in discussione, soprattutto oggi, in un’epoca segnata da migrazioni globali, interconnessioni crescenti e crisi geopolitiche. Nella parte finale del saggio, l’attenzione si sposta sullo Spazio Schengen, esempio concreto di come sia possibile superare le frontiere all’interno dell’Unione Europea. Cicerchia non si limita a celebrare i successi di questa iniziativa, ma ne evidenzia con lucidità anche le fragilità. La sospensione dei controlli interni nel 2015, in risposta ai flussi migratori e alle minacce terroristiche, mostra come l’ideale di uno “spazio senza frontiere” sia ancora fragile e in divenire. Schengen rappresenta così un simbolo di cooperazione, ma anche un campo di tensioni, dove si confrontano la libertà di movimento e le esigenze di sicurezza. Un altro elemento di pregio del testo è il legame che l’autrice costruisce tra confini e identità. I confini, infatti, non servono solo a delimitare spazi, ma a costruire un senso di appartenenza. Tuttavia, se non sono accompagnati da politiche di integrazione consapevoli, rischiano di diventare strumenti di esclusione. Come ricorda Lévi-Strauss, citato nel saggio, ogni cultura si arricchisce nel confronto con l’altra, ma deve anche saper preservare la propria identità per non perdersi.
Dalla riflessione simbolico-giuridica sul superamento delle frontiere in chiave culturale, il volume si sposta su una prospettiva sistemica e geopolitica, con il contributo di Paolo Cornetti dedicato alla transizione dall’unipolarismo al multipolarismo e al ruolo cruciale che il Mediterraneo assume in questa fase di riconfigurazione dell’ordine mondiale. L’autore ricostruisce le dinamiche che hanno segnato il passaggio da un sistema unipolare, egemonizzato dagli Stati Uniti, a un assetto multipolare ancora instabile e in via di definizione, offrendo un quadro interpretativo solido e aggiornato dei principali snodi geopolitici contemporanei. Muovendo dalla constatazione che, dopo il 1989, gli Stati Uniti si siano imposti come unica superpotenza globale, capace di proiettare influenza politica, economica e militare su scala planetaria, Cornetti ripercorre le fasi della cosiddetta “unipolarità americana”, segnata dalla diffusione del modello liberaldemocratico occidentale e da un diffuso ottimismo sulla fine dei conflitti sistemici, secondo la nota tesi della “fine della storia”. Tale visione, oggi ampiamente ridimensionata, si rivela a posteriori una costruzione ideologica fondata su presupposti eccessivamente semplificati. L’attuale contesto globale mette infatti in discussione la supremazia statunitense non tanto per effetto di forze antisistemiche come il fondamentalismo religioso o il populismo, quanto piuttosto per la crescente assertività di potenze revisioniste quali la Cina e la Russia. Queste, pur perseguendo interessi spesso divergenti, condividono l’obiettivo strategico di ridurre l’egemonia occidentale, promuovendo assetti alternativi nei campi della sicurezza, dell’economia e della governance globale. In tale quadro, anche il gruppo dei BRICS+ assume un ruolo rilevante nella costruzione di un ordine internazionale multipolare, offrendo una piattaforma di cooperazione Sud-Sud che ambisce a sfidare l’architettura dominata dalle potenze atlantiche. Cornetti evidenzia come gli Stati Uniti, lungi dall’accettare passivamente questa trasformazione, abbiano cercato di difendere la propria posizione attraverso la proiezione militare (si pensi all’espansione della NATO) e mediante iniziative diplomatiche multilivello. Tuttavia, alcuni eventi recenti, il caotico ritiro dall’Afghanistan (2021), l’invasione russa dell’Ucraina (2022), il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese (2023), hanno contribuito a minare la credibilità e la capacità degli Stati Uniti di mantenere un ordine stabile e condiviso. Particolarmente interessante risulta l’analisi del Mediterraneo quale spazio geopolitico chiave nella transizione dall’unipolarismo al multipolarismo. L’autore rilegge il “Mediterraneo allargato”, comprendente anche il Mar Rosso, il Mar Nero e il Golfo Persico, come teatro centrale della competizione globale contemporanea. Una regione che, da crocevia millenario di interazioni e scambi, si presenta oggi frammentata e profondamente instabile, attraversata da conflitti, rivalità e nuove forme di penetrazione strategica. In questo scenario, Cornetti mostra come gli Stati Uniti, sebbene ancora dominanti sul piano navale, incontrino crescenti difficoltà nel garantire la sicurezza in aree nevralgiche come lo Stretto di Bab-el-Mandeb e quello di Hormuz, dove l’attività di attori regionali, dall’Iran ai ribelli Houthi, contribuisce a un’instabilità strutturale. L’autore dedica inoltre particolare attenzione alla crescente influenza di attori esterni come Russia e Cina, e all’emergere di potenze regionali (Turchia, Israele, Arabia Saudita) le cui ambizioni si intrecciano con interessi globali, dando vita a un mosaico di alleanze fluide e contrapposizioni spesso asimmetriche. Significativa, in tal senso, è anche l’analisi del continente africano, in particolare del Sahel, dove la Russia, attraverso il gruppo Wagner, ha saputo colmare il vuoto lasciato dalle potenze occidentali, rafforzando la propria presenza e consolidando alleanze con regimi locali. Cornetti coglie con lucidità le implicazioni di questa nuova fase della competizione geopolitica, caratterizzata dall’intreccio tra attori statali e non statali, tra guerre convenzionali e conflitti ibridi, tra strategie tradizionali e strumenti di potere non convenzionali. Un aspetto critico messo efficacemente in luce dall’autore è la posizione dell’Unione Europea, che, pur essendo geograficamente e strategicamente coinvolta, appare priva di una visione coerente e di una reale capacità di azione autonoma. L’UE viene ritratta come un attore incapace di incidere in maniera significativa sugli equilibri regionali, penalizzata da una politica estera frammentata e da una dipendenza strutturale dalla protezione americana.
In continuità con la riflessione sul progressivo riassetto dell’ordine globale, il saggio di Marco Dordoni concentra l’attenzione sull’Artico e, in particolare, sulla Groenlandia, territorio un tempo marginale che assume oggi un ruolo sempre più rilevante nella ridefinizione delle geografie strategiche mondiali.. L’autore ricostruisce con chiarezza e profondità il percorso che ha condotto l’isola da periferia remota a spazio strategico di crescente rilevanza geopolitica, economica e ambientale. Un primo nucleo analitico è dedicato alla dimensione storica, che consente di comprendere come la Groenlandia, lungi dall’essere una “terra verde”, abbia fin dalle origini conosciuto una storia complessa, segnata da insediamenti, colonizzazioni, abbandoni e ritorni. Dall’arrivo dei Vichinghi medievali all’evangelizzazione danese, Dordoni mostra come i destini dell’isola siano stati strettamente legati alle oscillazioni climatiche e ai cicli storici dell’espansione imperiale europea. In questo quadro, la Groenlandia appare fin dalle origini come una realtà dinamica, capace di entrare e uscire dalle mappe della centralità storica globale. La seconda parte del saggio si concentra sul valore strategico dell’isola in epoca contemporanea, con particolare riferimento alla Seconda Guerra Mondiale e alla Guerra Fredda. La posizione geografica della Groenlandia – collocata nel cuore del corridoio GIUK (Groenlandia-Islanda-Regno Unito) – l’ha resa un punto nevralgico per la sicurezza atlantica, in particolare per gli Stati Uniti, che fin dal 1941 hanno consolidato la loro presenza sul territorio. L’interesse americano, manifestato anche attraverso l’offerta di acquisto dell’isola, testimonia la percezione della Groenlandia come spazio di rilevanza strategica vitale. Tuttavia, è nella contemporaneità che l’analisi di Dordoni acquista particolare forza esplicativa. Il cambiamento climatico in atto sta ridefinendo le geografie materiali e simboliche dell’Artico, aprendo nuove rotte marittime e rendendo accessibili risorse naturali precedentemente inaccessibili, come terre rare, minerali strategici e potenziali riserve energetiche. In questo scenario, la Groenlandia diviene oggetto di una competizione geopolitica globale che coinvolge, accanto agli Stati Uniti, anche la Cina e la Russia, interessate a estendere la propria influenza nell’area artica. Dordoni mostra altresì come le aspirazioni di sviluppo della Groenlandia si scontrino con una serie di ostacoli strutturali: infrastrutture carenti, vincoli normativi, lentezza burocratica e, non da ultimo, la necessità di considerare il ruolo e il consenso delle comunità locali. Ne risulta un quadro ambivalente, in cui le potenzialità economico-strategiche dell’isola convivono con significativi limiti materiali e politici. L’ultima parte del saggio propone una riflessione di respiro più ampio: la Groenlandia rappresenta un caso paradigmatico del mutamento in atto nell’ordine mondiale, in cui territori un tempo periferici acquisiscono centralità strategica per effetto di trasformazioni globali come la crisi climatica e la ristrutturazione delle catene di approvvigionamento delle risorse. L’autore invita così a riconsiderare la geopolitica come processo in continua ridefinizione, capace di investire anche spazi apparentemente marginali, i quali diventano luoghi chiave nella configurazione delle sfere d’influenza del XXI secolo.
Dalla centralità emergente della Groenlandia nel contesto artico, l’analisi si proietta oltre i limiti terrestri con il contributo di Alfonso Giordano, che propone l’esogeografia come nuovo paradigma teorico per interpretare le trasformazioni geopolitiche nello spazio extra-atmosferico. Il suo saggio costituisce un contributo originale e particolarmente rilevante allo studio delle mutazioni spaziali e concettuali connesse all’espansione dell’umanità oltre i confini del pianeta. Al centro dell’analisi si colloca il cosiddetto “confine alto”, soglia di transizione tra l’atmosfera terrestre e lo spazio orbitale, definita non solo come limite fisico, ma soprattutto come interfaccia multidimensionale, attraversata da tensioni giuridiche, tecnologiche e geopolitiche in continua evoluzione. Giordano ricostruisce l’evoluzione concettuale dell’esogeografia, delineandone il passaggio da intuizione marginale a campo di indagine autonomo e interdisciplinare. In questo quadro, le categorie tradizionali della geografia, della sovranità e del territorio risultano sempre più inadeguate, mentre lo spazio extra-atmosferico si configura come un ambiente tridimensionale, dinamico e variabile, attraversato da nuovi attori e da forme inedite di potere. Uno degli aspetti più rilevanti messi in luce dall’autore è la crescente permeabilità del confine alto, determinata dall’avanzamento tecnologico che ha reso possibile la proliferazione di sistemi di lancio riutilizzabili e la messa in orbita di mega-costellazioni satellitari. Tuttavia, tale apertura si rivela profondamente asimmetrica: l’accesso allo spazio resta fortemente condizionato da disuguaglianze geopolitiche preesistenti, contribuendo a riprodurre e talvolta ad amplificare squilibri già presenti sul piano terrestre. Il risultato è uno spazio di competizione, in cui governance, sicurezza, interessi economici e ambizioni statali si intersecano in una rete di tensioni latenti e conflitti potenziali. L’articolo sottolinea altresì l’inadeguatezza degli attuali dispositivi giuridici – fondati in gran parte sul diritto dell’aviazione e sui trattati spaziali della seconda metà del XX secolo – nel fornire una regolazione efficace di questa nuova frontiera. La complessità del confine alto richiede, secondo Giordano, un ripensamento profondo degli strumenti normativi, orientato alla costruzione di un regime giuridico più flessibile, equo e capace di includere una pluralità di attori, compresi quelli non statali. L’esogeografia si configura, in tal senso, come un ambito di studio critico e multidisciplinare, chiamato ad affrontare sfide teoriche e metodologiche senza precedenti: dalla mappatura di spazi volumetrici e mobili, alla gestione delle disuguaglianze di potere, fino alla comprensione delle diverse concezioni culturali del limite spaziale. Non si tratta solo di ampliare le coordinate fisiche della geografia, ma di riformularne i presupposti epistemologici in un contesto radicalmente mutato. L’analisi si conclude con una riflessione di ampio respiro sul futuro della geopolitica spaziale, prospettando una “riconcettualizzazione rivoluzionaria” del rapporto tra umanità e spazio. Il confine alto viene così interpretato come una soglia in divenire, sospesa tra potenzialità cooperative e logiche conflittuali, destinata a ridefinire i concetti stessi di territorio, sovranità e presenza politica.
Dallo spazio extra-atmosferico come nuova frontiera della competizione globale, l’analisi si sposta verso un altro dominio immateriale e sempre più conteso: il cyberspazio. In questa prospettiva, l’articolo di Said Saidakhrarovich Gulyamov propone un’analisi multidisciplinare del concetto emergente di cyber peacekeeping, ovvero il mantenimento della pace nel cyberspazio, affrontato da una prospettiva teorica, giuridica e filosofica. L’autore ne sottolinea la crescente centralità in un contesto globale segnato da trasformazioni profonde nella cybersicurezza e nella sovranità digitale, e ne propone un utilizzo innovativo come strumento per affrontare le sfide della sicurezza internazionale del XXI secolo. Al centro dell’argomentazione vi è la proposta di un nuovo paradigma, volto a superare i limiti dei tradizionali modelli di sicurezza, inadeguati a fronteggiare le minacce asimmetriche e pervasive della dimensione digitale. Il cyber peacekeeping viene così definito come un insieme di pratiche orientate alla prevenzione dei conflitti, alla mediazione e alla stabilizzazione post-conflitto in ambito cibernetico, con l’obiettivo di costruire fiducia tra attori statali e non statali, e promuovere meccanismi efficaci di de-escalation. Tale impostazione si scontra tuttavia con ostacoli significativi: la natura tecnica e opaca degli attacchi informatici, la difficoltà nell’attribuzione delle responsabilità, la sovrapposizione degli interessi nazionali e l’assenza di un quadro normativo condiviso. Gulyamov sottolinea come l’ambiente digitale, caratterizzato da confini sfumati e in continua trasformazione, imponga l’elaborazione di strumenti giuridici e operativi innovativi, nonché di strategie flessibili fondate sulla cooperazione multilivello. In quest’ottica, tecnologie emergenti come i gemelli digitali (digital twins) e la crittografia quantistica vengono considerate risorse strategiche da integrare nei futuri meccanismi di risposta e contenimento. Sul piano geopolitico, l’autore evidenzia la necessità urgente di sviluppare una governance globale efficace e inclusiva del cyberspazio, in grado di evitare l’aggravarsi delle attuali tensioni internazionali e l’emergere di nuovi squilibri. Il cyber peacekeeping viene così delineato come una componente essenziale di una futura architettura della sicurezza internazionale, in cui la dimensione digitale assume un ruolo paritetico rispetto a quella tradizionalmente militare e diplomatica. L’articolo propone inoltre una prospettiva di sviluppo articolata su due piani temporali. Nell’immediato, si raccomanda l’implementazione di progetti pilota, misure di fiducia reciproca e strumenti di cooperazione ispirati a modelli regionali come l’Unione Europea e l’ASEAN. In un’ottica di lungo periodo, l’integrazione dell’intelligenza artificiale e di altre tecnologie avanzate richiederà approcci resilienti, eticamente fondati e inclusivi, al fine di prevenire l’emergere di nuove disuguaglianze e minacce.
Le raccomandazioni conclusive dell’autore sono concrete e orientate all’azione: tra esse, la creazione di piattaforme internazionali di dialogo, l’elaborazione di standard giuridici ed etici condivisi, l’istituzione di percorsi formativi specializzati e la costituzione di fondi dedicati per sostenere le attività di cyber peacekeeping. Dunque, l’analisi di Gulyamov non solo contribuisce a definire con rigore e chiarezza le caratteristiche e le sfide di questo nuovo ambito operativo, ma lo inserisce nel più ampio processo di riconfigurazione della diplomazia e della sicurezza globale. Il cyber peacekeeping si delinea così come uno strumento fondamentale per la costruzione di un ordine digitale più stabile, cooperativo e sostenibile.
Il saggio di Giuliano Luongo dedicato al caso del Mare d’Aral offre un contributo rilevante all’analisi delle intersezioni tra crisi ambientali, dinamiche geopolitiche e fallimenti istituzionali. Con rigore e profondità, l’autore affronta una delle più gravi catastrofi ecologiche del XX secolo, ricostruendo un quadro complesso in cui il progressivo prosciugamento del bacino aralo-caspico risulta non solo da scelte ambientali insostenibili, ma anche dal malfunzionamento del sistema politico e gestionale regionale. Fin dall’incipit, il testo ricostruisce con chiarezza le premesse storiche della crisi, attribuendone le origini alle politiche sovietiche di sviluppo agricolo intensivo, basate su un uso massiccio e non sostenibile delle acque dei fiumi Amu Darya e Syr Darya. L’intervento umano, privo di una visione ecologica di lungo periodo, ha accelerato un processo di degrado ambientale che ha coinvolto interi ecosistemi e ha compromesso la sicurezza alimentare, la salute pubblica e la stabilità socioeconomica di numerose comunità locali. Luongo riesce a trasmettere efficacemente l’estensione e la gravità degli impatti, evidenziando come le conseguenze del disastro abbiano travalicato la dimensione puramente naturale, manifestandosi anche sotto forma di disgregazione sociale e vulnerabilità istituzionale.
Una sezione centrale del saggio è dedicata alla riconfigurazione degli equilibri politici successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, con particolare attenzione alle dispute sorte intorno alla gestione delle risorse idriche. La frammentazione post-sovietica ha infatti prodotto una rete di Stati con interessi idrici spesso in contrasto: le repubbliche montane (Kirghizistan e Tagikistan), situate a monte dei corsi d’acqua, e quelle della pianura (Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan), situate a valle, si trovano in una situazione di conflittualità latente per l’accesso e il controllo delle risorse. Tali tensioni non si esauriscono in divergenze di ordine tecnico, ma riflettono profondamente le rivalità politiche e le aspirazioni sovrane dei singoli attori, ostacolando qualsiasi prospettiva di cooperazione integrata. L’autore analizza con lucidità anche il fallimento dei tentativi di coordinamento multilaterale, soffermandosi in particolare sul ruolo debole e inefficace delle istituzioni sovranazionali istituite per affrontare la crisi, come l’Interstate Commission for Water Coordination. In un contesto segnato da scarsa fiducia reciproca, assenza di strumenti vincolanti e logiche di breve termine, tali organismi si sono rivelati incapaci di promuovere una governance condivisa ed efficace. La crisi del Mare d’Aral emerge così come un caso emblematico dell’incapacità delle strutture di governance regionali post-sovietiche di rispondere alle sfide ambientali transnazionali in modo concertato. La parte finale del saggio si distingue per l’orientamento propositivo e costruttivo. L’autore formula un insieme coerente di raccomandazioni operative per la costruzione di una governance integrata e sostenibile del bacino idrografico, che includono la creazione di istituzioni regionali dotate di reali poteri regolatori, l’introduzione di meccanismi di compensazione tra Stati, l’adozione di tecnologie per l’uso razionale dell’acqua, il coinvolgimento attivo delle comunità locali e la stipula di accordi multilaterali vincolanti. Queste proposte si collocano all’interno di una visione ampia che invita a superare le logiche competitive e frammentarie, in favore di un approccio fondato su equità, corresponsabilità e sostenibilità a lungo termine. Il caso del Mare d’Aral è così trasformato in una lente attraverso cui leggere le più ampie criticità della governance delle risorse idriche nel contesto globale contemporaneo. Il saggio rappresenta, pertanto, una lettura essenziale per comprendere come l’acqua, risorsa primaria e strategica, possa divenire al tempo stesso fonte di conflitto o di cooperazione, a seconda delle scelte politiche adottate dagli attori coinvolti.
Dalla crisi ambientale del Mare d’Aral, emblema delle fragilità istituzionali e delle tensioni idriche transfrontaliere nello spazio post-sovietico, l’attenzione si sposta verso un’altra regione nevralgica, il Medio Oriente, con l’analisi di Carole Massalsky, la quale, offre uno studio approfondito sull’ evoluzione delle relazioni tra Iran e Iraq, focalizzandosi sulla dimensione transfrontaliera come chiave interpretativa delle dinamiche bilaterali. dove il confine tra Iran e Iraq si configura come spazio dinamico in cui si intrecciano memoria bellica, interdipendenze economiche e relazioni religiose in continua evoluzione. Attraverso un approccio qualitativo e induttivo, l’autrice esamina con rigore i processi di trasformazione del confine che separa i due Paesi, una linea geografica di oltre 1600 chilometri, da teatro di conflitto a spazio di cooperazione e crescente interdipendenza, soffermandosi in particolare su tre ambiti cruciali: sicurezza, economia e religione. Uno degli elementi centrali dell’analisi risiede nella ricostruzione storica dei rapporti tra Teheran e Baghdad, segnati in passato da una lunga stagione di ostilità culminata nella guerra Iran-Iraq (1980–1988), ma profondamente mutati nel corso degli ultimi decenni. Massalsky mostra come, superata la logica della contrapposizione militare, i due Paesi abbiano gradualmente sviluppato relazioni più strette, facilitate dalla presenza di numerosi valichi di frontiera ufficiali e dalla centralità del culto sciita, che alimenta intensi flussi di pellegrinaggio verso i luoghi sacri iracheni di Najaf e Karbala. Pur riconoscendo i segnali di una progressiva cooperazione, il testo non trascura le tensioni ancora presenti lungo la linea di confine. Tra queste si annoverano le dispute irrisolte sullo Shatt al-Arab, la persistente attività di gruppi separatisti curdi e il traffico illecito di beni e persone. Particolare attenzione è rivolta al ruolo delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), milizie sciite emerse come risposta all’avanzata dell’ISIS, ma oggi divenute un attore ambivalente: da un lato, efficaci nel contenimento del terrorismo; dall’altro, protagoniste di dinamiche opache che favoriscono l’espansione dell’influenza iraniana e minano la legittimità dello Stato iracheno. In ambito economico, il confine si configura come un asse strategico per entrambe le economie. L’Iraq rappresenta il secondo mercato di sbocco per le esportazioni iraniane, mentre l’Iran svolge un ruolo essenziale nella fornitura di energia, generi alimentari e prodotti industriali. Il saggio documenta con precisione la molteplicità delle interazioni economiche — dalle zone di libero scambio ai giacimenti petroliferi condivisi, fino ai progetti infrastrutturali transfrontalieri, come la futura linea ferroviaria Shalamcheh-Basra — evidenziando come questa rete interdipendente consenta all’Iran, tra l’altro, di attenuare gli effetti delle sanzioni internazionali. La dimensione religiosa e culturale del confine, secondo l’autore, costituisce un ulteriore elemento di coesione, in quanto favorisce la mobilità dei fedeli sciiti e rinsalda i legami identitari tra le due popolazioni. Al tempo stesso, tale dimensione è suscettibile di strumentalizzazioni politiche, in particolare da parte dell’Iran, che ne fa uso per consolidare il proprio soft power nella regione. Un elemento di forza del saggio risiede nella volontà di andare oltre la narrativa, spesso semplificata, di un Iraq totalmente subordinato all’Iran. L’autrice propone, al contrario, una visione più articolata del rapporto bilaterale, nel quale l’Iraq, pur segnato da profonde fragilità istituzionali e dall’azione di attori non statali, manifesta tendenze emergenti verso una maggiore autonomia e bilateralità. Tuttavia, la piena sovranità sul territorio — e in particolare sulla fascia di confine — rimane un traguardo ancora distante, ostacolato da corruzione sistemica, debolezza amministrativa e sfiducia crescente della popolazione nei confronti dell’ingerenza iraniana.
L’analisi offerta contribuisce in modo significativo alla comprensione delle complesse interazioni che caratterizzano il Medio Oriente contemporaneo, fornendo strumenti utili per cogliere i meccanismi attraverso cui le frontiere possono trasformarsi da fonti di conflitto in potenziali vettori di cooperazione.
In seguito, con il saggio di Zaeem Hassan Mehmood, l’attenzione si sposta dallo spazio terrestre delle relazioni tra Iran e Iraq allo spazio marittimo dell’Indo-Pacifico, dove le nuove tecnologie stanno ridefinendo le frontiere geopolitiche e le modalità di controllo degli oceani. L’autore offre un’analisi chiara e puntuale del ruolo trasformativo delle tecnologie marittime emergenti in questo contesto, mettendo in discussione la concezione tradizionale dei confini marittimi come linee stabili e immutabili. Attraverso l’introduzione di piattaforme autonome, sistemi di sorveglianza intelligenti, intelligenza artificiale per la mappatura degli spazi marini e infrastrutture sottomarine avanzate, il mare viene descritto come uno spazio sempre più fluido, ambiguo e contendibile, in cui le dinamiche di potere sono in rapida evoluzione. Attraverso un approccio metodologico qualitativo, che include interviste a esperti e decisori politici, Mehmood evidenzia come le innovazioni tecnologiche abbiano ampliato significativamente la capacità degli Stati di esercitare controllo e proiezione strategica sulle proprie acque territoriali e zone economiche esclusive, specialmente in aree di elevato interesse strategico come l’Oceano Indiano e il Mar Cinese Meridionale. Tali tecnologie non solo accrescono le capacità operative statali, ma generano una pressione crescente sui quadri giuridici esistenti, mettendo in discussione la sufficienza degli strumenti normativi attuali per governare gli spazi marittimi contemporanei. Uno degli aspetti più rilevanti del saggio risiede nella capacità dell’autore di coniugare l’analisi tecnico-operativa con una riflessione più ampia sulle implicazioni geopolitiche e normative. L’emergere di una sovranità marittima tecnologicamente mediata — che non si limita alla dimensione militare, ma si estende anche alla governance, all’economia e alla sostenibilità ambientale — impone una ridefinizione concettuale delle frontiere geopolitiche e delle modalità di interazione tra attori statali e non statali. Le prospettive future delineate sono di particolare interesse. L’autore prevede una crescente digitalizzazione degli oceani, resa possibile da tecnologie quali l’imaging satellitare ad alta risoluzione, i veicoli subacquei autonomi e i big data oceanici, che potranno portare a una trasparenza senza precedenti nella gestione delle aree oceaniche. Questa evoluzione tecnologica, se non accompagnata da meccanismi condivisi di governance, potrebbe acuire le tensioni in aree già critiche, in particolare alla luce di possibili cambiamenti di indirizzo strategico da parte di grandi potenze come gli Stati Uniti. Il saggio affronta inoltre un aspetto spesso trascurato: l’impatto delle nuove tecnologie sull’estrazione mineraria dai fondali profondi, settore destinato a divenire uno dei principali nodi di pressione geopolitica nel prossimo futuro. L’uso di strumenti open source, come il Global Fishing Watch, offre già un’anticipazione delle potenzialità future per il monitoraggio e la regolamentazione delle attività marittime, ma lascia intravedere anche le sfide etiche e politiche connesse a una sorveglianza pervasiva degli oceani. Infine, l’autore sottolinea l’importanza delle recenti scoperte scientifiche legate agli ecosistemi oceanici profondi, che contribuiscono a mettere in discussione la nostra conoscenza degli abissi marini e, con essa, le premesse stesse delle strategie geopolitiche marittime. La crescente conoscenza degli oceani — tanto in termini ambientali quanto tecnologici — si configura così non solo come una conquista scientifica, ma come un fattore strutturale della trasformazione degli equilibri globali del XXI secolo.
Con il saggio di Gianluca Pastori, invece, il lettore viene condotto ad una rigorosa riflessione in merito alla linea Durand, il confine che separa Afghanistan e Pakistan, evidenziandone la natura complessa e poliedrica, che trascende la mera dimensione geografica per configurarsi come un confine politico, identitario e simbolico di primaria importanza. Tracciata nel 1893 nel contesto del dominio coloniale britannico, la linea Durand rappresenta ancora oggi una questione irrisolta e fonte costante di tensione tra i due Stati. Uno dei temi cardine del testo riguarda la natura ambigua e controversa di questa frontiera, che non è mai stata riconosciuta ufficialmente dall’Afghanistan e che, più che una barriera invalicabile, è stata percepita come una linea “elastica”. Tale ambiguità ha favorito nel corso degli anni legami familiari e tribali tra le popolazioni pashtun che abitano entrambi i lati del confine, ma ha altresì contribuito all’instabilità politica e sociale, acuita soprattutto dalla nascita del Pakistan e dall’ascesa dei talebani. Pastori approfondisce come la questione della linea Durand sia indissolubilmente legata alla costruzione delle identità nazionali nei due Paesi: in Afghanistan, il nazionalismo pashtun ha rappresentato spesso un elemento unificante, mentre in Pakistan le autorità hanno tentato di integrare le popolazioni di confine in un’identità pakistana più ampia. Queste dinamiche, tuttavia, hanno generato tensioni interne ed esterne, aggravate dalla presenza di gruppi armati, dalle accuse reciproche di sostegno al terrorismo e dalle politiche repressive nei confronti delle comunità tribali. Un ulteriore punto di rilievo nell’analisi è il ruolo geopolitico che la linea Durand assume a livello internazionale. Essa si configura come un nodo cruciale all’interno degli interessi strategici di attori globali quali Cina, India e Iran, nonché dell’intera regione dell’Asia centrale. Progetti infrastrutturali di vasta portata, quali la Belt and Road Initiative e il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), passano necessariamente attraverso la stabilità di quest’area, conferendo così al confine una rilevanza che va ben oltre i suoi apparenti limiti periferici. L’autore invita a considerare la linea Durand non semplicemente come una disputa territoriale, bensì come una chiave di lettura essenziale per comprendere le fragilità della costruzione statale, le rivalità etniche e le complesse ambizioni geopolitiche dell’intera regione. Attraverso un’efficace combinazione di analisi storica e prospettive contemporanee, l’autore mostra come quella linea tracciata nel 1893 continui ancora oggi a segnare profondamente il destino di milioni di persone, rappresentando una frontiera di tensione ma anche di possibili dialogo.
A chiudere questa prima sezione è il saggio di Francesco Valacchi, che ci porta sull’altopiano tibetano per ricostruire l’evoluzione del Tibet da “terra delle nevi” a territorio di confine, snodo strategico al centro di contese storiche e attuali tra grandi potenze. Il saggio evidenzia come il Tibet non sia mai stato un’area marginale, ma piuttosto un crocevia politico e geografico, attraversato da interessi imperiali e rivalità regionali, oggi incarnate nel confronto irrisolto tra Cina e India. Uno dei temi centrali dell’articolo riguarda la difficile scoperta e definizione del confine tibetano, a partire dalla conquista Qing nel XVIII secolo. In tale fase, la Cina cominciò a considerare il Tibet più come un protettorato da amministrare e controllare che come uno Stato sovrano indipendente, inserendo la regione all’interno del proprio sistema imperiale in una posizione di frontiera strategica. Questa prima configurazione gettò le basi di una storia complessa di relazioni che si approfondirono nel contesto del “Grande gioco” tra Russia, Gran Bretagna e Cina nel XIX secolo. Il Tibet divenne così terreno di rivalità geopolitiche che coinvolsero esplorazioni militari, diplomatiche e scientifiche, mettendo in rilievo sia la fragilità del controllo esercitato sia il ruolo ambivalente della regione quale spazio di influenza e resistenza. La trattazione procede con l’analisi della storia contemporanea, evidenziando il passaggio dal dominio imperiale alla Repubblica Popolare Cinese e alle crescenti tensioni con l’India post-coloniale. La presa di potere cinese nel 1950 e l’imposizione dell’“Accordo dei diciassette punti” segnarono una nuova fase di assimilazione forzata e conflitto, culminata nella rivolta tibetana del 1959 e nella fuga del Dalai Lama in esilio. Da quel momento, il Tibet si configurò come una zona di contesa non solo culturale e politica, ma anche geopolitica, situata al centro di un confronto fra due grandi potenze asiatiche — Cina e India — caratterizzato da un confine fluido, mai definitivamente delimitato e fonte continua di tensione. Un ulteriore aspetto centrale del saggio è la trasformazione del concetto stesso di confine. Valacchi sottolinea come, nell’attuale contesto multipolare e nel quadro dell’emergere del Global South, il Tibet si presenti come un “confine fluido”, uno spazio in cui competizione e cooperazione convivono in un equilibrio instabile. Tale prospettiva supera la rigida concezione occidentale del confine quale linea netta di demarcazione, proponendo invece una lettura più dinamica e strategica, nella quale il Tibet rappresenta allo stesso tempo un’area simbolica di identità e uno spazio geopolitico da governare con pragmatismo. Il saggio non manca infine di evidenziare le contraddizioni e le difficoltà insite in questo modello. Pur riconoscendo la potenzialità del Tibet come zona di possibili collaborazione strategica tra Cina e India, Valacchi mette in luce l’assenza di reali prospettive di autodeterminazione per il popolo tibetano, vittima di una colonizzazione culturale e politica che ne limita fortemente l’emancipazione. Questa riflessione si inserisce in un più ampio dibattito riguardante il ruolo delle potenze globali e l’efficacia dei modelli politici internazionali nel tutelare minoranze e popoli marginalizzati.
Nella seconda parte del volume di Geopolitica (1/2025), intitolata “Orizzonti”, gli autori Ferdinando Angeletti (Fiamme in Nuova Caledonia: tra revanscismo post coloniale, indipendentismo e guerra ibrida), Giacinto D’Urso e Giorgio Giosafatto (Peaceful use of space. Lessons learned from the Encyclical “Pacem in Terris”), Lucas De Arruda Zanani (The Tragic Alliance: Circassian Irredentism and Third Reich) e Mario Gennatiempo (Verso quale verso? La sostenibile leggerezza della Belt and Road Initiative) propongono quattro sguardi critici su spazi e soggetti geopolitici “al margine”, affrontando tematiche apparentemente eterogenee ma accomunate da un filo rosso comune: la tensione tra subordinazione storica e aspirazione a un ordine globale più equo e plurale. In modi diversi, tutti e quattro i contributi esplorano forme di marginalità geopolitica postcoloniali, diasporiche, normative, simboliche che oggi si rivelano tutt’altro che passive o irrilevanti. Che si tratti delle rivolte indipendentiste Kanak nel Pacifico, del destino politico irrisolto dei Circassi nella diaspora, delle disuguaglianze nell’accesso allo spazio extra-atmosferico o dell’ambiguità espansiva della Belt and Road Initiative, ciascun saggio denuncia l’asimmetria persistente dei rapporti di potere internazionali, pur adottando angolature teoriche e temporali differenti. L’interesse si sposta così verso quegli “spazi di frizione” tra centro e periferia dell’ordine globale, dove la dimensione geopolitica si interseca con quella storica, simbolica e giuridica. Da questo punto di vista, Orizzonti si configura come una sezione di forte coerenza critica: propone un’esplorazione plurale delle condizioni di conflitto e rappresentanza che oggi segnano il mondo post-globale, ponendo domande su giustizia, memoria e riconoscimento. I testi suggeriscono, in filigrana, che la geopolitica non può più limitarsi allo studio degli equilibri tra Stati, ma deve farsi analisi delle fratture non sanate, delle identità escluse, delle domande di autonomia e legittimità che emergono nei teatri meno centrali ma non per questo meno significativi.
Il saggio di Ferdinando Angeletti affronta con precisione analitica e sensibilità storica le recenti tensioni in Nuova Caledonia, interpretando gli eventi del 2024 non come un’esplosione episodica di violenza locale, ma come il manifestarsi di una frattura geopolitica strutturale rimasta irrisolta dalla stagione postcoloniale. L’autore costruisce la propria argomentazione a partire da una lettura multilivello del conflitto, che intreccia la dimensione storica (il rapporto mai completamente riequilibrato tra Francia e popolazione Kanak), quella giuridico-istituzionale (gli effetti della riforma elettorale del 2024), e quella internazionale (l’inserimento della crisi all’interno di dinamiche di guerra ibrida e influenza multipolare). Uno dei punti di forza del contributo sta nella storicizzazione delle promesse mancate della decolonizzazione. Angeletti ripercorre con rigore gli accordi di Matignon (1988) e di Nouméa (1998), evidenziando come il lento processo di trasferimento dei poteri e di riconoscimento politico ai Kanak sia stato sistematicamente rallentato, diluito e infine messo in discussione dalla Francia metropolitana. In particolare, la riforma elettorale introdotta unilateralmente nel 2024 che consente ai residenti francesi d’insediamento recente di votare alle elezioni locali viene interpretata come una vera e propria rottura del patto costituzionale implicito, in quanto altera la demografia politica dell’arcipelago e delegittima le aspirazioni di autodeterminazione del popolo autoctono. Angeletti si distingue inoltre per la capacità di inserire il conflitto Kanak in una cornice geopolitica più ampia, superando l’analisi puramente postcoloniale. In particolare, l’autore esplora il ruolo svolto da attori esterni tra cui l’Azerbaigian che, attraverso campagne mediatiche e simboliche, hanno sostenuto la causa indipendentista come parte di una strategia anti-francese nel contesto della crisi del Nagorno-Karabakh. Questa dinamica viene efficacemente inquadrata come una forma di “guerra ibrida delegata”, in cui la strumentalizzazione dei movimenti separatisti diventa un mezzo per esercitare pressioni geopolitiche indirette contro potenze occidentali coinvolte in altri teatri. Il riferimento all’ibridazione delle forme di influenza contemporanea, che combinano diplomazia parallela, propaganda e azione cibernetica, arricchisce la lettura e mostra come anche gli spazi più periferici possano divenire nodi rilevanti nella competizione multipolare. Infine, il saggio apre una riflessione più generale sul destino delle colonie d’oltremare in epoca post-globale, e sulla crisi di legittimità che colpisce le democrazie occidentali quando si confrontano con le loro eredità imperiali. Angeletti evita facili moralismi, ma non rinuncia a porre una questione centrale: è possibile costruire un ordine postcoloniale realmente inclusivo se i rapporti di sovranità rimangono fondati su asimmetrie di rappresentanza e di accesso al potere politico? La Nuova Caledonia diventa, in tal senso, un laboratorio critico della postcolonialità europea, e il saggio ne offre un’analisi lucida, ben documentata e capace di cogliere le implicazioni più ampie in termini di giustizia internazionale e governance multilivello. Il contributo congiunto di Giacinto D’Urso e Giorgio Giosafatto si distingue all’interno della sezione Orizzonti per l’originalità metodologica e la profondità etico-normativa. Il saggio propone una connessione inedita tra il diritto spaziale internazionale e l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, offrendo una riflessione sulla governance dello spazio extra-atmosferico che va oltre le consuete letture tecnico-strategiche. Gli autori avanzano una tesi chiara: in un’epoca segnata dalla crescente militarizzazione e privatizzazione dello spazio, è necessario recuperare un principio di responsabilità etica e inclusiva, ispirato ai valori della pace, della cooperazione e della giustizia universale. Il punto di partenza del saggio è la constatazione che lo spazio non è (più) un vuoto neutrale, ma un dominio geopolitico altamente competitivo, dove la corsa a nuove tecnologie orbitali, alla sorveglianza e all’estrazione di risorse rischia di riprodurre e aggravare le disuguaglianze esistenti tra Stati. In questo contesto, il richiamo all’enciclica del 1963 non è un espediente retorico, ma un tentativo consapevole di reintegrare l’etica nella costruzione normativa dello spazio globale. Pacem in Terris, infatti, afferma l’unità del genere umano, la necessità della solidarietà e la subordinazione del potere tecnico alla dignità della persona umana. Traslata in ambito spaziale, questa visione suggerisce l’urgenza di una governance planetaria non predatoria, fondata su regole condivise e sull’inclusione degli attori meno capaci di esercitare potere nello spazio. Il saggio tocca inoltre un nodo geopolitico fondamentale: la disuguaglianza strutturale nell’accesso e nella partecipazione alle politiche spaziali. I Paesi tecnologicamente avanzati – Stati Uniti, Cina, Russia, e in misura crescente anche India e Israele sono oggi in grado di definire unilateralmente le condizioni di uso dello spazio, mentre molti Stati del Sud Globale restano esclusi da qualsiasi forma di codeterminazione. Gli autori invitano dunque a rileggere lo spazio non come “ultima frontiera” della competizione, ma come prova di maturità del diritto internazionale: una cartina di tornasole per misurare la capacità della comunità globale di anteporre l’interesse comune alla logica della supremazia. Un ulteriore merito del saggio sta nell’intreccio tra riflessione giuridica e visione antropologica. Gli autori non si limitano a evocare il principio del “bene comune”, ma ne derivano conseguenze operative: la necessità di accordi vincolanti, di organismi multilaterali effettivamente inclusivi, e di una moratoria sulla militarizzazione dell’orbita terrestre bassa. La prospettiva teologica viene dunque valorizzata come fonte epistemologica alternativa a quelle dominanti nel discorso strategico, offrendo una via per umanizzare uno dei campi più avanzati e opachi dell’azione statale. Il risultato è un saggio visionario ma concreto, che invita a ripensare l’architettura del potere orbitale alla luce della dignità umana e della responsabilità planetaria.
Il saggio di Lucas De Arruda Zanani rappresenta un contributo di straordinaria densità storiografica e simbolica. Incentrato sull’irredentismo circasso e sul controverso rapporto tra diaspora nordcaucasica e Terzo Reich, il testo affronta con rigore scientifico una tematica poco esplorata nella letteratura geopolitica, gettando luce su una pagina oscura di storia transnazionale. Zanani analizza le ragioni che portarono una parte dell’intellighenzia circassa a cercare un’alleanza con la Germania nazista, nella speranza di ottenere il sostegno per la creazione di uno Stato indipendente nel Caucaso occidentale. Il saggio si distingue per l’equilibrio tra approccio filologico e interpretazione geopolitica, evitando tanto la condanna ideologica quanto l’apologia. Il cuore dell’analisi risiede nella ricostruzione delle traiettorie diasporiche e nella comprensione delle fratture identitarie che spinsero alcuni gruppi circassi ad aderire a una “alleanza tragica”, nella quale la ricerca di riconoscimento e di patria si intrecciava con una strumentalizzazione da parte del regime nazista. Zanani decifra con attenzione le ambiguità ideologiche e le manipolazioni reciproche, mostrando come la marginalità geopolitica di un popolo senza Stato possa condurre a scelte disperate, dettate più dalla mancanza di alternative che da affinità reali. La tesi centrale è che l’irredentismo circasso lungi dall’essere un fenomeno monolitico debba essere letto alla luce delle costrizioni geopolitiche dell’epoca, ma anche come antecedente simbolico delle odierne rivendicazioni di identità e autodeterminazione nel Caucaso e nella diaspora. La parte conclusiva del saggio estende il ragionamento all’attualità, con un’analisi implicita della geopolitica della memoria e della costruzione di una narrativa diasporica alternativa, capace di sfidare le egemonie storico-politiche. In questo senso, Zanani contribuisce non solo alla conoscenza di un episodio storico negletto, ma anche alla comprensione delle modalità con cui le identità collettive, quando escluse dal patto westfaliano, possono cercare agency in alleanze eterodosse. La lezione che ne emerge è profondamente attuale: l’invisibilità politica non cancella l’esistenza dei soggetti geopolitici, ma ne trasforma le forme di azione e rappresentazione.
Il quarto contributo, firmato da Mario Gennatiempo, propone un’analisi critica e raffinata della Belt and Road Initiative (BRI), mettendo in discussione le narrazioni convenzionali sulla sua coerenza interna e sulla sua efficacia come strumento di influenza globale. Il titolo “Verso quale verso?” già anticipa il tono riflessivo e, in parte, ironico del saggio, che decostruisce l’immagine monolitica della strategia cinese, presentandola piuttosto come un assemblaggio eterogeneo di progetti, retoriche e ambizioni non sempre convergenti. L’autore muove da una prospettiva di realismo critico: riconosce alla BRI una funzione performativa nella ridefinizione delle geografie globali del potere, ma ne evidenzia anche le contraddizioni interne, le resistenze locali e i limiti strutturali. Gennatiempo esamina con cura i diversi livelli di significazione della BRI: economico (infrastrutture e investimenti), politico (soft power e cooptazione), normativo (proposte alternative di governance), e simbolico (riscatto postcoloniale e “rinascita” cinese). Ne emerge un quadro complesso, in cui la Cina si presenta non tanto come nuovo egemone ordinatore, ma come attore che sperimenta e talvolta improvvisa forme di penetrazione multilivello. Un elemento particolarmente interessante è la messa in discussione del paradigma win-win, spesso evocato nei discorsi ufficiali cinesi. L’autore mostra come la retorica della cooperazione simmetrica venga smentita in molti contesti da pratiche di dominazione economica, di estrattivismo finanziario e di dipendenza tecnologica. Viene inoltre sottolineata la natura “liquida” della BRI, la cui adattabilità ai contesti locali, se da un lato ne assicura la flessibilità, dall’altro ne riduce la trasparenza e la verificabilità. In questo senso, Gennatiempo offre una lettura che problematizza la categoria stessa di “iniziativa”, suggerendo che la BRI non sia un piano organico, ma una narrazione di potere che funziona anche grazie alla sua vaghezza. Il saggio si conclude con una riflessione più ampia sulla crisi della globalizzazione e sulle nuove modalità con cui gli Stati e in particolare le potenze post-occidentali tentano di ricombinare interessi economici, influenza normativa e legittimazione culturale. La BRI diventa, in questa prospettiva, un dispositivo analitico utile per comprendere il passaggio a un ordine multipolare reticolare, in cui le grandi iniziative transnazionali non producono più coerenza sistemica, ma moltiplicano spazi grigi, ambiguità e competizione narrativa.
La terza parte del volume di Geopolitica (1/2025), intitolata Contributi su invito, raccoglie sette saggi firmati da studiosi e analisti di diversa estrazione accademica e culturale, impegnati nell’indagare le dinamiche profonde che attraversano la geopolitica contemporanea. Si susseguono in questa sezione: Alberto Cossu, con Geopolitical Implications of the US-Mexico Border; Mark L. Entin ed Ekaterina G. Entina, con Potential and reality of strategic depth in relations between Russia and China under modern conditions; Phil Kelly, autore di The Geopolitics of Borders and Frontiers with Examples of Their Relevance to International Relations; Andrea Komlosy, con Ordinamenti territoriali e politica delle frontiere in retrospettiva e prospettiva storica; Gino Lanzara, con il saggio Limiti, confini, frontiere: il coraggio di spostare oltre l’orizzonte la visuale e la conoscenza; Fabio Mini, con Confini; e infine Giuseppe Romeo, con Permeabilità delle frontiere e mobilità dei confini. Storia di una prospettiva multipolare in un mondo post-globale. Pur nella varietà degli approcci e delle sensibilità, questi contributi si interrogano sul senso e sulla funzione del confine nel mondo globale e post-globale, esplorandone le articolazioni territoriali, simboliche, normative e strategiche. La frontiera non viene più concepita come mera linea di separazione, bensì come spazio complesso e ambivalente, luogo di conflitto e interazione, di definizione identitaria e produzione di sovranità. In tal modo, la sezione si configura come una riflessione a più voci su come mutano le geometrie del potere e le architetture dell’ordine mondiale, offrendo chiavi di lettura capaci di interpretare il presente in tutta la sua frammentazione e densità.
Geopolitical Implications of the US-Mexico Border, il saggio di Alberto Cossu, apre questa sezione con un’analisi radicale e multidimensionale del confine come dispositivo produttivo di potere, mobilità e gerarchia. L’autore, adottando una prospettiva che intreccia sociologia politica, geografia critica e teoria delle migrazioni, decostruisce la narrazione del confine come semplice linea di separazione fisica, proponendolo invece come elemento centrale nei processi di governo neoliberale. Attraverso un’accurata indagine sul caso statunitense – e in particolare sulla frontiera meridionale con il Messico – Cossu mostra come il confine non sia soltanto una barriera territoriale, ma un artefatto istituzionale e simbolico in grado di produrre soggettività, differenziare i corpi e legittimare forme di esclusione. Il confine, in questa prospettiva, funziona come macchina bio-politica e come laboratorio di sperimentazione tecnologica: droni, algoritmi di sorveglianza e privatizzazione della sicurezza si combinano per generare un controllo selettivo che penalizza la mobilità umana mentre agevola quella di merci e capitali. L’analisi della militarizzazione crescente della frontiera, intensificatasi a partire dagli anni 2000 e culminata durante l’amministrazione Trump, è interpretata non come risposta emergenziale ma come effetto di una razionalità sistemica che trae forza dalla gestione permanente della crisi migratoria. L’autore insiste inoltre sul nesso strutturale tra confine e razzializzazione: i migranti centroamericani vengono costruiti come “altro minaccioso”, soggetto subalterno da escludere o sfruttare, funzionale tanto alla produzione di consenso quanto alla riproduzione di rapporti economici diseguali. L’intero saggio si configura così come un invito a leggere i confini non come semplici strumenti giuridico-militari, ma come dispositivi semiotici e politici, spazi in cui si contendono immaginari e pratiche, e dove le soggettività migranti possono divenire agenti di resistenza e di sovversione. La riflessione culmina in una critica puntuale alla crisi del liberalismo globale, di cui il confine USA–Messico è insieme sintomo, laboratorio e simbolo. Uno sguardo orientato verso le dinamiche eurasiatiche e le relazioni tra grandi potenze emerge invece dal saggio Potential and reality of strategic depth in relations between Russia and China under modern conditions, a firma di Mark L. Entin ed Ekaterina G. Entina. I due autori propongono un’analisi articolata della cooperazione tra Mosca e Pechino, interrogandosi sulla reale esistenza di una “profondità strategica” capace di andare oltre la convergenza tattica o l’allineamento occasionale. Il punto di partenza è una constatazione tanto realistica quanto necessaria: l’apparente armonia tra i due Stati non implica automaticamente una visione comune del mondo né un’alleanza strutturale. Al contrario, la cooperazione russo-cinese si muove su un crinale fragile, segnato da affinità superficiali e divergenze profonde. Gli autori analizzano tre assi principali di discontinuità: la dimensione storico-politica, in cui pesano ancora le diffidenze ereditate dalla rottura sino-sovietica e dalle ambizioni imperiali non sopite; quella economica, che vede la Russia progressivamente subordinata al potere economico cinese, in una relazione sempre più asimmetrica, in particolare nel settore energetico; e infine la sfera ideologico-dottrinaria, dove emergono visioni differenti dell’ordine mondiale. Mentre Mosca insiste sulla restaurazione del proprio status come grande potenza attraverso l’uso della forza e della deterrenza militare, Pechino privilegia una logica graduale, geo-economica, centrata sulla proiezione commerciale e tecnologica. Il merito principale del saggio risiede nella chiarezza con cui distingue la cooperazione tattica – risposta reattiva alle pressioni occidentali – dalla profondità strategica, che implicherebbe valori condivisi, finalità di lungo periodo e meccanismi comuni di istituzionalizzazione. In assenza di questi elementi, la relazione tra Russia e Cina resta strutturalmente instabile, nonostante la sua rilevanza nella transizione verso un ordine multipolare. Entin ed Entina evitano accuratamente semplificazioni binarie e restituiscono un quadro complesso, stratificato, in cui la geopolitica eurasiatica si configura come campo di possibilità più che come assetto già consolidato. Un taglio teorico e concettuale caratterizza anche The Geopolitics of Borders and Frontiers with Examples of Their Relevance to International Relations, il saggio di Phil Kelly, incentrato su una distinzione spesso trascurata nella riflessione geopolitica contemporanea: quella tra “borders” e “frontiers”. Il primo termine si riferisce ai confini formali, amministrativi, giuridicamente stabiliti tra entità statali; il secondo invece evoca spazi aperti, dinamici, non completamente definiti, in cui il potere si esercita in maniera contrattata, discontinua o informale. Kelly recupera questa dicotomia dalla tradizione geopolitica classica per dimostrare come le relazioni internazionali non si articolino soltanto attorno a confini stabiliti, ma si giochino in larga misura nelle aree fluide, contese, di transizione. Attraverso una serie di esempi, dalle frontiere coloniali nordamericane al confine israelo-palestinese, dalle dispute nel Mar Cinese Meridionale ai confini orientali europei, l’autore mostra come le “frontiers” rappresentino oggi veri e propri laboratori di produzione geopolitica. In questi spazi si negoziano identità, si costruiscono sovranità, si attivano narrazioni legittimanti. La riflessione di Kelly è al tempo stesso una critica ai modelli legalistici e un’esortazione a riattualizzare il pensiero geopolitico classico in chiave euristica, non deterministica. Le categorie spaziali non sono neutre né fisse: esse riflettono rapporti di forza e configurazioni storiche che evolvono costantemente. Il saggio si distingue anche per la sua capacità di articolare teoria e casi empirici, offrendo una chiave di lettura utile non solo alla ricerca accademica, ma anche alla comprensione operativa delle relazioni internazionali. Una riflessione di lungo periodo sulla funzione storica e politica del confine è al centro del contributo di Andrea Komlosy, Ordinamenti territoriali e politica delle frontiere in retrospettiva e prospettiva storica, che si impone per profondità concettuale e solidità metodologica. L’autrice sviluppa una genealogia della frontiera come strumento dinamico di organizzazione dello spazio politico, individuando tre grandi fasi nella sua evoluzione: quella premoderna, in cui prevalevano forme di sovranità fluide e spazialmente disomogenee; quella moderna, segnata dalla statualità centralizzata e dalla codificazione dei confini nazionali; e quella contemporanea, in cui la globalizzazione e le crisi sistemiche ridefiniscono le logiche dell’inclusione e dell’esclusione. Komlosy mostra come le frontiere non siano mai neutrali, ma operino come dispositivi di selezione e di regolazione della mobilità: esse attribuiscono o negano diritti, determinano accesso al lavoro e alla cittadinanza, stabiliscono asimmetrie tra centro e periferia. L’autrice utilizza in modo efficace strumenti teorici mutuati dalla teoria del sistema-mondo, ponendo in relazione le dinamiche territoriali con quelle economiche e normative. Particolarmente rilevante è l’analisi della “mobilità differenziata”, attraverso cui le frontiere contemporanee favoriscono certi flussi, capitali, merci, élite, e ne ostacolano altri, in particolare quelli legati alla migrazione e alla marginalità sociale. Il confine, in questa lettura, non è semplicemente una linea, ma una tecnologia di governo che riflette e riproduce gerarchie globali. Il saggio si distingue per l’equilibrio tra rigore storico e attualità analitica, restituendo una visione stratificata e critica della governance spaziale nel mondo contemporaneo. A proseguire questa riflessione, il saggio Limiti, confini, frontiere: il coraggio di spostare oltre l’orizzonte la visuale e la conoscenza, firmato da Gino Lanzara, si configura come un invito a riconsiderare la natura stessa del confine, superandone le definizioni statiche, geografiche o meramente amministrative. Attraverso una prosa densa e suggestiva, l’autore interroga il confine come costrutto simbolico e cognitivo, inscritto tanto nella storia delle civiltà quanto nei dispositivi ideologici della modernità politica. Il confine, sostiene Lanzara, è da sempre espressione del tentativo umano di ordinare il caos, di attribuire senso allo spazio attraverso atti di delimitazione che, più che proteggere, selezionano, escludono, separano. Ma è proprio questo gesto di ordinamento a rivelare il suo carattere intrinsecamente conflittuale. La linea di frontiera diventa allora, più che uno strumento di sicurezza, una forma di rappresentazione del potere, una modalità attraverso cui si costruisce l’identità del “noi” in opposizione al “loro”. Lanzara si sofferma su come, nel contesto attuale, i confini tendano a moltiplicarsi piuttosto che a dissolversi, assumendo forme sempre più sofisticate e pervasive: dalle barriere fisiche ai muri digitali, dai dispositivi di sorveglianza remota alle infrastrutture cognitive della guerra dell’informazione. La funzione del confine si ibrida così con quella della tecnologia e della comunicazione, rivelando la sua capacità di agire non solo sui corpi e sui territori, ma anche sulle menti e sulle percezioni collettive. In questa prospettiva, il confine è anche un terreno epistemologico, un luogo in cui si decide cosa può essere conosciuto, rappresentato, pensato. L’autore richiama il coraggio necessario per spingere lo sguardo oltre questi orizzonti tracciati, suggerendo che la riflessione sui limiti sia al tempo stesso un esercizio di pensiero critico e una forma di resistenza culturale. Il saggio si distingue per la sua apertura multidisciplinare e per la volontà di interrogare la geopolitica in chiave non solo spaziale, ma anche ontologica. A questa dimensione critica si collega in modo coerente il contributo Confini, firmato da Fabio Mini, che affronta il tema con un tono lucido, disincantato e spesso provocatorio. Generale ed esperto di strategia militare, Mini propone una decostruzione sistematica delle narrazioni dominanti sul confine, restituendone la funzione eminentemente politica, e non neutrale. Il confine, osserva l’autore, è prima di tutto un’invenzione funzionale del potere, un artificio narrativo destinato a giustificare l’esclusione, l’isolamento e, in molti casi, la guerra. Attraverso un percorso che unisce analisi storica, osservazione strategica e riflessione filosofica, Mini mostra come il confine venga spesso utilizzato non per garantire sicurezza, ma per generare insicurezza, alimentando una percezione costante di minaccia e alterità. Particolarmente incisiva è la riflessione sui “confini di guerra”, barriere che si ergono non solo come linee di difesa, ma come strumenti di aggressione preventiva, dispositivi attraverso cui si struttura un ordine violento e asimmetrico. Il confine, in questa lettura, non è tanto una risposta a una crisi, quanto il sintomo di una crisi strutturale della sovranità. L’autore si sofferma inoltre sulle nuove forme di frontiera digitale, invisibile e selettiva: dai firewall informatici ai radar satellitari, dalle zone no-fly alle architetture di sorveglianza algoritmica. In questo scenario, la sovranità si esprime non più attraverso il controllo diretto dello spazio, ma tramite la capacità di gestire i flussi, decidere chi può attraversare, cosa può passare e chi deve restare escluso. Mini coglie così un nodo centrale della geopolitica contemporanea: il confine come luogo di selezione cognitiva e strumento di potere più che mai attuale. La sua analisi si traduce in un’accusa lucida contro l’ipocrisia dei discorsi securitari, invitando a ripensare il confine non come simbolo di stabilità, ma come sintomo di una fragilità profonda dell’ordine internazionale. Chiude la sezione il saggio di Giuseppe Romeo, Permeabilità delle frontiere e mobilità dei confini. Storia di una prospettiva multipolare in un mondo post-globale, che si impone come una sintesi teorica sofisticata e profondamente critica della spazialità politica nella contemporaneità. Il testo si sviluppa a partire da una premessa fondamentale: la globalizzazione non ha cancellato i confini, ma li ha moltiplicati e resi più mobili, stratificati e selettivi. Romeo legge il passaggio dall’ordine bipolare a quello multipolare come il punto di rottura in cui il paradigma territoriale rigido della modernità viene soppiantato da una grammatica flessibile, adattiva, incentrata sulla permeabilità. Il confine si trasforma così in interfaccia, soglia, filtro: non tanto una barriera, quanto un dispositivo che regola accessi, controlla mobilità e produce nuove forme di gerarchizzazione. Particolarmente rilevante è la riflessione sull’uso politico della permeabilità: le potenze emergenti, dalla Cina alla Russia, dall’India ai blocchi regionali, non si limitano a contestare l’universalismo occidentale, ma ridefiniscono attivamente le proprie geografie del controllo, modellando confini funzionali a regimi di sovranità differenziata e a strategie di dominio cognitivo. Anche l’Unione Europea, lungi dal rappresentare un’alternativa trasparente e inclusiva, è descritta come uno spazio caratterizzato da frontiere mobili e gerarchizzate, in cui la selezione dei flussi risponde a logiche geopolitiche, economiche e securitarie. Romeo propone una visione dialettica e complessa del confine, che non si limita alla sua dimensione cartografica ma si estende alle forme di appartenenza, ai regimi di diritto e ai dispositivi di potere. Il saggio si distingue per il linguaggio colto, per l’ampiezza del quadro teorico e per la capacità di articolare, all’interno di una prospettiva multipolare, una lettura originale della crisi dell’ordine liberale e della metamorfosi delle architetture spaziali contemporanee.
In conclusione, Confine e frontiera. In geopolitica, nel diritto internazionale e nelle relazioni internazionali si presenta come un’opera di grande spessore, capace di offrire al lettore una riflessione articolata, interdisciplinare e profondamente attuale su una delle categorie più decisive dell’età contemporanea. Il concetto di confine, spesso inteso in senso statico e lineare, viene qui ripensato come costrutto dinamico e sfaccettato, attraverso il quale si manifestano le tensioni, le ambiguità e le trasformazioni del sistema internazionale. Tra i principali punti di forza del volume spicca la capacità di integrare prospettive teoriche e casi concreti, offrendo una lettura ampia che abbraccia diversi ambiti disciplinari, dalla geopolitica al diritto, dalla tecnologia all’identità culturale, e attraversa spazi fisici e simbolici, terrestri e digitali, locali e globali. Il lettore viene accompagnato in un viaggio attraverso confini porosi e riconfigurati, dove si intrecciano conflitti armati, rivalità strategiche, processi di cooperazione, dispositivi tecnologici e narrazioni identitarie. Emergono così nuove chiavi interpretative per comprendere i mutamenti dello spazio politico, resi ancora più urgenti da crisi ambientali, cyberminacce, competizioni infrastrutturali e dalla ridefinizione delle sovranità nazionali. Il volume si rivolge a un pubblico ampio e consapevole, studiosi, analisti, studenti, decisori, offrendo strumenti concettuali e analitici indispensabili per leggere le linee di frattura e i margini di ricomposizione che segnano l’attuale fase storica. Non si limita a descrivere i confini, li interroga, li smonta e li ricostruisce, suggerendo che proprio nelle zone di frontiera, visibili o invisibili, si decidono oggi le forme della convivenza, del conflitto e dell’ordine globale.