Autore: Maria Alessandra Varone – 20/07/2022
La linea di confine tra autorità e diritto è molto sottile; la differenza tra Stato di diritto e Stato autoritario diventa diafana con i giusti mezzi e il loro astuto impiego. Da quasi tre anni, tra i due vi è stata una commistione, una pericolosa fusione, destinata a sopprimere il primo.
Dopo aver trovato terreno fertile su cui marciare, il sapere tecnico ha detronato l’agire politico, da anni zoppicante e malmesso, e l’ha sopraffatto. Per farlo, ha utilizzato due armi sempre efficaci: l’autorità e la paura, con un risultato, però, senza precedenti, frutto dalla tecnologia odierna e di una assiologia accademica ben consolidata.
La figura dell’esperto ha sostituito quella del capo politico, dell’uomo di Stato, arrogandosi un diritto decisionale sulla sfera pubblica, ridefinendone la struttura, e dando adito a nuove, spontanee interpretazioni di categorie del senso comune, prima semplici ed immediate. La più evidente, è la diffusa identificazione tra diritto di parola e competenza. Questo, un enorme sbaglio: la competenza attribuisce autorità alla parola, non è il diritto alla parola. Tale autorità, inoltre, non è assoluta o generica, ma circoscritta al perimetro della sede istituzionale ove una determinata competenza è impiegata o trasmessa. A circoscriverla sono almeno due elementi distinti: una ulteriore competenza e l’associazione politica degli uomini come elemento super partes.
Nel diritto vige il cosiddetto principio di esclusività, per il quale, in sostanza, al diritto si può rispondere solo con altro diritto: una sentenza può essere messa in dubbio solo con mezzi altrettanto giuridici, non con strumenti fisici o filosofici. Per intenderci, non si può contestare nel merito una sentenza con la Critica della ragione pratica, ma ciò non toglie nulla alla competenza filosofica di uno specialista kantiano; così come non sapere cosa sia un imperativo categorico, non intacca in alcun modo la preparazione giuridica di un magistrato. Quello che vale per il diritto, vale per ogni altra disciplina. Non esistono saperi con più voce in capitolo di altri, sono tutti sullo stesso piano in quanto tra loro irriducibili e incommensurabili. È possibile stabilire una priorità solo e soltanto quando ci si riferisce ad una situazione particolare, contingente. E infatti nel 2020 i protagonisti della comunicazione erano i medici, nel 2022 gli analisti di geopolitica. Perché? Proprio per quanto detto sino ad ora, l’autorità è circoscritta, ha bisogno di un campo di applicazione, altrimenti è politicamente superflua, non nel senso che sia poco importante, ma nel senso che non è necessaria. Questo è il compito cui assolve l’emergenza: stabilire una gerarchia tra saperi, stroncando il dialogo e la sua natura orizzontale. A chi importa conoscere l’opinione di un medico sui piani di Putin? A chi importa cosa ha da dire un macellaio sulla curva dei contagi? Vale meno, ha meno autorità sulla contingenza. Ora, in linea di principio, non è un discorso sbagliato, è il contesto ad esserlo, insieme alla sua estensione indebita. È ovvio che se dobbiamo sottoporci a delle cure, reputiamo naturalmente più importante l’opinione di un medico rispetto a quella di un contadino, ma ciò non toglie che il contadino abbia tutto il diritto di contestare il medico, anche nel merito, se vuole, e anche sbagliando. Gli uomini hanno tutto il diritto di essere ciarlatani. Inoltre, vi è un fattore fondamentale che è stato puntualmente trascurato, e cioè la capacità decisionale del singolo e la responsabilità che ne segue. Se un malato si trovasse a dover scegliere tra un medico e un contadino, non si può attribuire la responsabilità delle conseguenze al contadino che si è dedicato alla medicina da autodidatta, bensì a chi ha deliberatamente scelto a chi affidarsi, in questo caso, al malato. Se il malato, invece, fosse incapace di intendere e di volere, e il contadino ne approfittasse, in quel caso è prevista una legittima misura penale. Ma ammettendo che il contadino non voglia ingannare nessuno, e che si relazioni con persone in grado di intendere e di volere secondo i parametri accordati dalle autorità mediche e giuridiche, la sua pretesa sarebbe indebita se e solo se venisse avanzata una pretesa, dal contadino, di avere la stessa autorità di un medico, che invece è riconosciuta dalla comunità, in quanto attestata dal titolo. Tuttavia, autorità non è prerogativa per poter parlare liberamente meritando di essere ascoltati, che è un diritto, bensì soddisfare i requisiti per essere legittimati all’agire dalla comunità. Un contadino può dirsi esperto di virologia, e magari dire anche cose esatte, ma non può curare un paziente, non può scrivere ricette: tanto basta.
Ridurre la complessità del fenomeno umano è sempre sbagliato, eppure è stata la linea guida degli ultimi anni, in cui sono state create delle etichette, senza scendere nel dettaglio, ma limitandosi a delle macro-categorie utilissime per esercitare un controllo comunicativo, che è sempre anche controllo politico. Un esempio cristallino sono le coppie Si-Vax/No-Vax, Si-GreenPass/No-GreenPass, Pro-NATO/Pro-Putin. Come se tutto questo non fosse già sufficientemente illegittimo, le succitate categorie sono state assimilate tra loro, creando corrispondenze, nonostante la totale differenza di campo. Non c’è nessun motivo ragionevole per ridurre un Si-Vax a un Pro-NATO, o un No-Vax a un Pro-Putin: sono delle estrapolazioni contingenti eradicate da comportamenti sociali che sono stati volontariamente stimolati e indirizzati verso una dimensione dualistica e manichea. È una manovra brillante che è sempre stata impiegata dai potenti a scopi propagandistici. Rafforzando una posizione socialmente dominante, si irrobustisce, necessariamente, anche il suo contrario. In una sola mossa si prevede anche il comportamento dell’opposizione, la quale non è più tale, ma diventa funzionale: si tratta di una apparenza senza nessun potere trasformativo, di una serie di comportamenti perfettamente prevedibili e perciò trattabili in anticipo, assolvendo alla prerogativa fondamentale della politica dalla prospettiva di chi detiene il potere: operare sul futuro nel presente. Per fare un esempio immediato: se un partito promuove una determinata linea di condotta, la parte di popolazione che avversa il partito in questione farà il contrario a prescindere da tutto, e spesso succede, solo perché dà per ovvio che la cosa giusta da fare sia sicuramente quella che la fazione opposta non vuole che si verifichi.
Nelle trasmissioni televisive, questo è lampante, e lo si vede dalla scelta degli ospiti, che mettono in scena delle dinamiche non costruttive né comunicative, bensì solo una lotta tra gladiatori degli estremi che non comunicano, ma che si auto-affermano. Tuttavia, non può essere altrimenti, perché è stata preparata la drasticità con un colpo da maestro: tassare di radicalità anche la moderazione, semplicemente non c’è alternativa: con noi o contro di noi. Non si dice immediatamente che Putin è un tiranno? Non si afferma subito che i vaccini abbiano salvato vite? In entrambi i casi segue una spontanea, immediata classificazione come Pro-Putin o No-Vax.
Questo deve essere chiaro: ad una retorica forte non si ribatte con la ragionevolezza o con la logica, ma solo con una retorica altrettanto forte ed efficace. Ritorniamo al punto di partenza: per un cambiamento bisogna utilizzare un linguaggio comune, questo è la retorica. La quale, a sua volta, deve soddisfare delle condizioni non scritte, ma che devono essere note a chi vuole agire: sono quelle contestuali, non immediate, ma ben radicate nell’inconscio collettivo. Per esempio, oggi, se si vuol parlare polemicamente del vaccino in maniera efficace, e cioè con un potere effettivo sulle masse, non bastano la parola forbita e la logica tagliente, bisogna essere vaccinati, medici, oppure aver avuto una causa fisica, salutare, che giustifichi l’essersi sottratti alla vaccinazione. Se si volesse parlare polemicamente della guerra tra Russia e Ucraina, per un esito veramente efficace, bisognerebbe come minimo essere ucraini, certamente non russi, e così via.
Che fare? In primo luogo accettare la realtà per quello che è, e cioè entrare nell’ottica che per quanto possa sembrare una esagerazione, o un che di assolutamente distante dal reale, di fatto in Italia c’è una pericolosa virata tecnocratica. Il modo per contrastarla è riportare al centro dell’azione la politica, l’agire politico come entità super partes e scevra da ogni competenza, la quale è necessaria solo in ambienti circoscritti e limitati, nonché votati ad uno scopo specifico e circostanziato: l’economo per l’economia, il medico, per la cura, etc.. Se si continua a confondere il diritto del cittadino con la competenza del cittadino, non si può più parlare di Stato di diritto, ma di tecnocrazia, che piaccia o no: si abbia almeno quella minima onestà, quell’ultimo retaggio di dignità, di chiamare le cose con il loro nome.
L’Autore
Maria Alessandra Varone – laureata in Filosofia della scienza presso l’Università degli Studi Roma Tre con una tesi sull’eredità della fisica di Newton nella filosofia di Kant, attualmente lavora come consulente didattico presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano e porta avanti le sue ricerche sul rapporto tra scienze naturali e metafisica, con particolare riguardo al newtonianesimo nella Germania romantica ed idealista.